Corte di cassazione
Sezione II penale
Sentenza 27 maggio 2014, n. 29009
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza in data 5 marzo 2013, riformando la condanna pronunciata il 21 giugno 2012 dal G.I.P. del Tribunale di Catanzaro nei confronti di C. Giuseppe e C. Aurelio, dichiarati colpevoli il primo di due ipotesi di danneggiamento con pericolo di incendio, di violenza privata, di tentativo di estorsione e di illecita concorrenza con violenza e minaccia, il secondo di danneggiamento con pericolo di incendio e di violenza privata, rideterminava la pena in anni quattro e mesi due di reclusione ed euro 800 di multa nei confronti di C. Giuseppe e di anni due e mesi due di reclusione nei confronti di C. Aurelio.
Propongono ricorso per cassazione i difensori degli imputati.
Il difensore di C. Aurelio censura la condanna per i reati di cui agli artt. 424 e 610 c.p. aggravati ex art. 7 l. n. 203 del 1991 (capo 4), contestati per avere, quale mandante e in concorso con C. Giuseppe ed altri quali esecutori materiali, mediante violenza, consistita nell'appiccare il fuoco, allo scopo di danneggiarla, all'autovettura di proprietà della ditta DA.NE.CO. impianti s.r.l., in uso al funzionario di essa Ci. Stefano, con pericolo di incendio, costretto il Ci., addetto al controllo del cantiere della discarica del Comune di Pianopoli, a dare le dimissioni dall'incarico, al fine di evitarne gli stringenti controlli.
Il difensore ricorrente deduce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione, in quanto le dichiarazioni rese da D.L. Luigi, imputato nel medesimo processo e chiamante in correità, e da C. Roberto, Ci. Stefano e M. Giorgio, non costituirebbero un compendio probatorio sufficiente a fondare una dichiarazione di responsabilità, posto che la Corte di Appello desume il coinvolgimento dell'imputato nei fatti in questione attribuendo rilevanza al suo interessamento per i lavori della discarica e per le abitudini di vita del Ci., mentre tale interessamento dal D.L. è attribuito al coimputato C. Giuseppe, nipote di Aurelio e autore materiale dell'incendio dell'autovettura, tanto è vero che lo stesso C. Giuseppe attribuisce a sé stesso, in sede di spontanee dichiarazioni rese in udienza, l'esclusiva responsabilità del fatto in questione.
Errato sarebbe, inoltre, il ragionamento del giudice di appello, allorquando ritiene di rinvenire riscontri individualizzanti alle dichiarazioni del D.L., nelle dichiarazioni rese dai testimoni, in quanto Ci. Stefano non avrebbe affatto ricollegato, nella sua denuncia, il danneggiamento al C. Aurelio, mentre le dichiarazioni degli altri testimoni nulla aggiungono in termini di prova della responsabilità dell'imputato. Non risulterebbe, infatti, alcun elemento da cui possa trarsi un contributo fattivo e concreto del C. Aurelio nella condotta illecita del nipote.
Il ricorrente censura anche la ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 7 l. n. 203 del 1991, poiché non vi sarebbe la prova che minacce e vessazioni possano connettersi alla presenza di gruppi malavitosi organizzati ovvero che la condotta incriminata si sia avvalsa di un clima di intimidazione comunque riferibile a siffatte realtà associative.
Il difensore di C. Giuseppe deduce i seguenti motivi:
1) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 56 e 629 c.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Secondo l'accusa (capo 1), l'imputato, in concorso con altri, con violenza, consistita nell'appiccare il fuoco al fine di danneggiarlo e con pericolo di incendio ad un box adibito a postazione fissa per il servizio di vigilanza del San Lucido Beach Resort, compiva atti idonei diretti in modo inequivoco a costringere i titolari del resort a conferire nuovamente alla ditta Macave il servizio di guardiania con postazione fissa in luogo di quello con vigilanza saltuaria; fatti aggravati dal metodo mafioso.
Il ricorrente lamenta che i giudici della cognizione si siano pronunciati in modo antitetico rispetto al giudice del riesame, che, in presenza del medesimo quadro indiziario, aveva escluso la sussistenza del reato di tentata estorsione ed aveva ravvisato il movente dell'azione delittuosa nell'acredine del C. nei confronti dei titolari del suddetto resort per avere ridotto i rapporti contrattuali con la cooperativa di cui il C. era socio.
2) insussistenza dell'aggravante ex art. 7 l. n. 203 del 1991, con riferimento al capo 1) dell'imputazione.
Il ricorrente contesta che l'imputato abbia agito come mafioso, non essendo vicino ad ambienti mafiosi, non essendo mai stato coinvolto in procedimenti di mafia ed avendo danneggiato il box di proprietà dei G. perché "preso da un raptus di rabbia sorretto da un sentimento di rancore".
3) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 513-bis c.p. (capo 2), nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Con riferimento all'accusa di avere compiuto, nell'esercizio dell'attività di guardiania della Cooperativa Sociale di Servizi NA.CA.VE., atti di illecita concorrenza nei confronti dell'Istituto di vigilanza I.V.I.C., con violenza e minacce, consistite nell'aggredire con un coltello un dipendente della ditta I.V.I.C., L. Luigi, il ricorrente afferma che l'imputato ha ammesso di essere ricorso a minacce nei confronti del L., ma chiarendo che la sua condotta era stata dettata da un moto di rabbia, perché aveva scoperto che una società sua cliente si era rivolta per il servizio di vigilanza ad una ditta concorrente per la quale il L. prestava servizio; si tratterebbe, pertanto, del reato di minacce semplici, non essendo applicabile l'art. 513-bis c.p. ad atti di violenza e minaccia in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologica dell'agente e non venga posto in essere uno specifico atto di illecita concorrenza. Il ricorrente osserva, inoltre, che l'art. 513-bis c.p. è stato introdotto dal legislatore per sanzionare la concorrenza attuata con metodi mafiosi, ma gli stessi giudici di merito hanno ritenuto insussistente l'aggravante del metodo mafioso.
4) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 610 c.p. (capo 4), nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Con riferimento all'accusa di avere appiccato il fuoco all'autovettura di Ci. Stefano, in concorso, tra gli altri, con C. Aurelio, il ricorrente afferma che, per la configurabilità del reato contestato, occorre che l'azione o l'omissione, che la violenza o la minaccia sono rivolte ad ottenere dal soggetto passivo, siano determinate, poiché, ove manchi tale determinatezza, si avranno i singoli reati di minaccia, molestie, ingiuria ma non quello di violenza privata. Nel caso di specie, non emergerebbe la volontà del C. di coartare le determinazioni del Ci., in quanto l'imputato, che non aveva alcun interesse a rimuovere costui dal proprio incarico, aveva ammesso il fatto dichiarando di avere agito per il risentimento generato dal sospetto di una relazione del Ci. con sua moglie.
5) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 7 l. n. 203 del 1991 con riferimento all'art. 610 c.p. (capo 4), nonché mancanza e manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorrente sostiene l'insussistenza della suddetta aggravante, in quanto per la sua configurabilità sarebbe irrilevante il fatto che l'intimidazione promani da un soggetto appartenente ad un sodalizio criminoso, sicché non avrebbe significato che il correo C. Aurelio sia indicato come persona "che conta" negli ambienti delinquenziali e ritenuto affiliato ad una cosca.
6) inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 132 e 133 c.p. e dell'art. 61, n. 2, c.p.
Il ricorrente lamenta che la pena è sproporzionata rispetto al fatto reato e che il giudice non ha fornito alcuna valida giustificazione; afferma, inoltre, che sarebbe insussistente l'aggravante di cui all'art. 61, n. 2, c.p., poiché non risulterebbe che il danneggiamento con l'incendio sia stato commesso al fine di realizzare il delitto estorsivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso di C. Aurelio è manifestamente infondato ovvero non consentito nel giudizio di legittimità e deve essere dichiarato inammissibile.
Occorre ribadire che, secondo il costante insegnamento di questa Suprema Corte, esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. Un., 30 aprile - 2 luglio 1997, n. 6402, Dessimone, Rv. 207944; tra le più recenti: Sez. 4, n. 4842 del 2 dicembre 2003 - 6 febbraio 2004, Elia, Rv. 229369).
I motivi proposti tendono, appunto, ad ottenere una inammissibile ricostruzione dei fatti mediante criteri di valutazione diversi da quelli adottati dai giudici di merito, le cui valutazioni, non essendovi difformità sui punti denunciati, si integrano vicendevolmente, formando un tutto organico e inscindibile (Sez. 2, n. 5112 del 2 marzo 1994, Palazzotto, Rv. 198487; Sez. 2, n. 11220 del 13 novembre 1997, Ambrosino, Rv. 209145; Sez. 6, n. 23248 del 7 febbraio 2003, Zanotti, Rv. 225671).
Le sentenze dei due gradi di giudizio, con motivazione ampia ed esente da vizi logici e giuridici, hanno esplicitato le ragioni del convincimento in merito alla responsabilità dell'imputato e alla sussistenza dell'aggravante contestata.
Il ricorrente oppone una ricostruzione frammentata delle dichiarazioni rese da C., M., Ci. e D.L., mentre i giudici di merito le valutano correttamente nella loro reciproca integrazione, desumendone la partecipazione dell'imputato al delitto contestato. In particolare, la sentenza di primo grado (pag. 16, ed anche quella di appello a pag. 6), sintetizza così le dichiarazioni confessorie di D.L.: «riferiva di avere assistito, in una delle occasioni in cui era stato a casa di C. Aurelio insieme a suo nipote C. Giuseppe, ad un dialogo tra i due, nel corso del quale affrontavano la problematica relativa ad un ingegnere di S. Lucido che si stava occupando della realizzazione della discarica di Pianopoli, con chiaro riferimento a Ci. Stefano, dicendo che "era uno che dava fastidio". Quindi C. Giuseppe aveva chiesto al D.L. di mostrargli la casa dove abitavano i fratelli Ci. e, in più occasioni, aveva voluto passare da tale abitazione durante i giri notturni del servizio di vigilanza, fino a quando, aiutati dal M., non avevano appiccato il fuoco alla autovettura del Ci.. Dopo il delitto, il D.L. e C. Giuseppe si erano recati a casa di C. Aurelio e il nipote lo aveva informato che "quella cosa era stata fatta"». Le dichiarazioni degli altri testimoni, secondo l'apprezzamento dei giudici di merito, incensurabile in questa sede di legittimità, sono pienamente convergenti sul fatto e sulle ragioni del gesto criminoso. La circostanza, poi, che C. Giuseppe, nell'ammettere la sua partecipazione al delitto, abbia negato quella dello zio Aurelio, dicendo di essersi determinato a commettere il crimine per ragioni strettamente personali, consistenti nel risentimento generato dal sospetto di una relazione del Ci. con sua moglie, è spiegata (pag. 17 della sentenza primo grado) con la volontà di «proteggere il congiunto Aurelio dal rischio di una condanna. Essa non trova nessun tipo di riscontro nelle acquisizioni investigative ed è smentita da plurime fonti di prova che documentano che il Ci. era stato "punito" per avere esercitato i controlli sull'andamento dei lavori di realizzazione della discarica» e, in effetti, il Ci., a distanza di cinque giorni dall'attentato, dava le dimissioni dall'incarico che aveva originato l'atto di intimidazione nei suoi confronti.
Per quanto concerne la contestata aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991, i giudici di merito hanno ritenuto sussistente l'aggravante medesima sotto il profilo dell'uso del c.d. metodo mafioso. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che per la configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso", prevista art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203), non è necessario che sia stata dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo sufficiente che la violenza o la minaccia assumano veste tipicamente mafiosa (Sez. 2, n. 322 del 2 ottobre 2013 - 8 gennaio 2014, Ferrise, Rv. 258103). Ebbene, la sentenza impugnata ha evidenziato che il contestato delitto si colloca nell'ambito di una serie di intimidazioni e danneggiamenti subiti dalla DA.NE.CO. impegnata nella realizzazione della discarica in Pianopoli, che il mero interesse di C. Aurelio, soggetto pregiudicato, cognato di T. Agostino, affiliato alla cosca dei Giampà, per il Ci. «aveva creato subito allarme nel M. che immediatamente ha allertato il comandante della stazione dei Carabinieri di Pianopoli», che «il fatto presenta le modalità intimidatorie, risolute e prepotenti delle organizzazioni criminali operanti sul territorio»: tutti elementi che, nel loro insieme, «evocano senza dubbio le modalità tipiche del controllo delle attività economiche presenti sul territorio da parte delle organizzazioni criminali». Lo sviluppo argomentativo del giudice di merito è coerente con i principi giurisprudenziali in materia e privo di manifesti vizi logici, non censurabile, quindi, in alcun modo da questo giudice di legittimità.
Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso, al versamento della somma, che si ritiene equa, di euro 1.000,00 a favore della cassa delle ammende.
Il ricorso di C. Giuseppe è fondato, nei limiti e in applicazione dei principi di diritto di cui alla presente motivazione, solo con riferimento al motivo di ricorso concernente il contestato delitto di cui all'art. 513-bis c.p.
Sulla interpretazione della espressione "atti di concorrenza" di cui al citato art. 513-bis, questo collegio condivide la prevalente e più recente giurisprudenza, la quale afferma il seguente principio di diritto: l'art. 513-bis c.p. punisce soltanto quelle condotte illecite tipicamente concorrenziali (quali il boicottaggio, lo storno dei dipendenti, il rifiuto di contrattare, etc.) attuate, però, con atti di coartazione che inibiscono la normale dinamica imprenditoriale, non rientrando, invece, nella fattispecie astratta, gli atti intimidatori che siano finalizzati a contrastare o ostacolare l'altrui libera concorrenza (Sez. 3, n. 16195 del 6 marzo 2013, Fammilume, Rv. 255398; Sez. 1, n. 6541 del 2 febbraio 2012, Aquino, Rv. 252435; Sez. 2, n. 35611 del 27 giugno 2007, Tarantino, Rv. 237801; Sez. 3, n. 46756 del 3 novembre 2005, Mannone, Rv. 232650). Non si ritiene, pertanto, condivisibile il diverso orientamento giurisprudenziale, secondo il quale, ai fini dell'integrazione del reato d'illecita concorrenza con violenza o minaccia qualsiasi comportamento violento o intimidatorio idoneo ad impedire al concorrente d'autodeterminarsi nell'esercizio della sua attività commerciale, industriale o comunque produttiva configura un atto di concorrenza illecita (Sez. 3, n. 44169 del 22 ottobre 2008, Di Nuzzo, Rv. 241683; Sez. 2, n. 13691 del 15 marzo 2005, De Noia Mecenero, Rv. 231129; Sez. 3, n. 450 del 15 febbraio 1995, Tamborrini, Rv. 201578).
Quest'ultima interpretazione non appare conforme al testo normativo, inteso a distinguere gli atti di concorrenza dagli atti di violenza o minaccia, e pone problemi di violazione del principio di legalità e di tassatività, non potendosi eliminare dall'"elemento oggettivo dell'incriminazione il nucleo fondamentale, cioè, la realizzazione di un atto di concorrenza" (così Sez. 3, n. 46756 del 3 novembre 2005, Mannone, cit.). Ne consegue che, diversamente da quanto ritenuto dalla sentenza impugnata, la previsione di cui all'art. 513-bis c.p. non è applicabile ad atti di violenza e minaccia, in relazione ai quali la limitazione della concorrenza è solo la mira teleologica dello agente. Ciò, peraltro, non esclude che tali condotte rimangano riconducibili ad altre fattispecie di reati preesistenti all'introduzione del suddetto articolo nel testo del codice, come del resto lo stesso ricorrente ammette, sostenendo una diversa qualificazione giuridica dei fatti, che sarebbero riconducibili, a suo avviso, nella fattispecie della minaccia. La giurisprudenza ha, però, chiarito che la disposizione di cui all'art. 513-bis c.p., collocata tra i reati contro l'industria e il commercio, richiede una condotta tesa a scoraggiare mediante violenza o minaccia l'altrui concorrenza e ha come scopo la tutela dell'ordine economico e, quindi, del normale svolgimento delle attività produttive a esso inerenti, mentre la norma di cui all'art. 629 c.p., collocata tra i reati contro il patrimonio, tende a salvaguardare prevalentemente il patrimonio dei singoli; ne deriva che qualora si realizzino contemporaneamente gli elementi costitutivi di entrambi i reati è configurabile il concorso formale degli stessi, non ricorrendo l'ipotesi del concorso apparente di norme. Tale possibile concorrenza di reati rende evidente che, una volta esclusa la configurabilità del delitto di illecita concorrenza, può comunque ravvisarsi il delitto di estorsione nella sua forma consumata o tentata. La corretta qualificazione dei fatti di causa dipende da una rivalutazione degli stessi alla luce dei principi di diritto sopra formulati, rivalutazione che non può essere compiuta in questa sede di legittimità, ma deve essere rinviata al giudice di merito.
In definitiva, la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro, limitatamente al capo 2) (art. 513-bis c.p.), perché rivaluti i fatti in applicazione dei suddetti principi di diritto.
Gli altri motivi di ricorso non possono essere accolti: quelli relativo alla responsabilità e all'aggravante contestata ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 con riferimento al capo 4) delle imputazioni, per le ragioni evidenziate con riguardo al ricorso di C. Aurelio; quelli relativi alla responsabilità e alle aggravanti ex art. 7 d.l. n. 152 del 1991 ed ex art. 61, n. 2, c.p. con riferimento al capo 1) delle imputazioni, in quanto su tutti i punti denunciati la motivazione dei giudici di merito è ampia e corretta dal punto di vista logico e giuridico, evidenziando come dalle dichiarazioni testimoniali e dalle stesse ammissioni dell'imputato emergesse che l'intento di costui non fosse solo di tipo ritorsivo, ma altresì diretto ad indurre i G. a rivedere la loro decisione ed a orientarsi per un servizio di vigilanza con postazione fissa, sottolineando, inoltre, la chiara circostanza che «il contestato delitto si collochi nell'ambito di una strategia intimidatoria diretta a sanzionare i fratelli G. [... con ...] il ricorso al danneggiamento a mezzo del fuoco costituente tipica espressione operativa della criminalità organizzata che opera nei territori di riferimento nella sicurezza dell'impunità derivante dallo stato di assoggettamento e di omertà conseguente».
Il motivo sulla pena resta assorbito in quello accolto, dovendosi procedere da parte del giudice di rinvio alla sua rideterminazione in esito al nuovo giudizio.
La sentenza impugnata, dunque, deve essere dichiarata irrevocabile in relazione ai capi non annullati.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso di C. Aurelio, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 alla cassa delle ammende.
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di C. Giuseppe limitatamente al capo 2) (art. 513-bis c.p.) con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Catanzaro per nuovo giudizio sul capo. Rigetta il ricorso e dichiara irrevocabile la sentenza quanto ai restanti capi.
Depositata il 4 luglio 2014.