Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 9 aprile 2014, n. 20004
1. Con ordinanza, deliberata il 29 aprile 2013 e depositata il 31 maggio 2013 il Tribunale di sorveglianza di Napoli ha confermato la ordinanza del Magistrato di sorveglianza di quella sede, 29 novembre 2012, di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata (previa contestuale dichiarazione di delinquenza abituale) a carico dell'appellante Carmine Lucarelli, soprannominato "U Selvaggio 2", motivando: costui ha riportato «oltre due condanne per delitti non colposi»; col presupposto di legge concorre l'apprezzamento della pericolosità del prevenuto, comprovata dal procedimento pendente a suo carico e dalla negativa informativa inviata dai Carabinieri della Stazione di Caivano.
2. Ricorre per cassazione il vigilato, personalmente, mediante atto s.d., depositato il 6 luglio 2013, col quale dichiara promiscuamente di denunziare, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lettere b), c) ed e), c.p.p. inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme di cui si deve tenere conto nella applicazione della legge penale, in relazione agli artt. 103 e 133 c.p.; inosservanza di norme processuali, in relazione agli artt. 444 e 445 c.p.p., nonché mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione.
Il ricorrente deduce: difetta il presupposto di legge minimo per la dichiarazione della delinquenza abituale, costituito da concorso di almeno tre condanne; infatti una delle tre sentenze a carico è stata emessa col rito della applicazione della pena su richiesta; e, pertanto, sulla base del principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità non costituisce titolo per l'applicazione della misura di sicurezza.
Aggiunge, infine, il ricorrente: i precedenti penali sono tutti remoti, risalendo a circa tredici anni fa; sicché non suffragano la prognosi di attualità della pericolosità.
3. Il procuratore generale della Repubblica presso questa Corte, con atto recante la data del 4 dicembre 2013, rileva ad adiuvandum: la seconda, in ordine cronologico, delle tre sentenze a carico del ricorrente è una «sentenza di patteggiamento»; alla sentenza di applicazione della pena su richiesta non può conseguire, ai sensi dell'art. 445 c.p.p., alcuna misura di sicurezza personale; inoltre la dichiarazione di delinquenza abituale esige la discrezionale valutazione dei fattori indicati nell'art. 103 c.p. che «è impossibile svolgere sulla base di una sentenza di patteggiamento».
4. Il ricorso non è fondato.
4.1. In ordine alla quaestio iuris - sollevata col primo motivo di impugnazione - della rilevanza delle sentenze di applicazione della pena su richiesta ai fini della (dichiarazione di) abitualità ritenuta dal giudice, ai sensi dell'art. 103 c.p., è dato censire nella giurisprudenza di questa Corte suprema di cassazione difformità di pronunce.
4.1.1. Secondo un primo indirizzo «ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato prevista dall'art. 103 c.p., legittimamente il giudice tiene conto anche di una sentenza di patteggiamento» (Sez. 1, n. 17296 del 17 aprile 2008 - dep. 24 aprile 2008, Bigonzi, Rv. 239631; cui adde, in tema di abitualità presunta dalla legge, Sez. 2, n. 40813 del 18 ottobre 2005 - dep. 9 novembre 2005, Olivero, Rv. 232695, secondo la quale anche la reclusione, «applicata sulla base di una sentenza di patteggiamento» rientra «nel computo della pena, ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato prescritta dalla legge, ai sensi dell'art. 102 c.p.»).
4.1.2. In consapevole dissenso si è, invece, posto un arresto più recente e ha fissato il contrario principio di diritto: «Ai fini della dichiarazione di abitualità nel reato ex art. 103 c.p. e della conseguente applicazione di misura di sicurezza detentiva non è consentito tenere conto, quale sentenza di condanna per delitto non colposo seguita a condanna per due delitti non colposi, di una sentenza di applicazione di pena concordata non superiore a due anni di pena detentiva» (Sez. 1, n. 24142 del 25 febbraio 2011 - dep. 16 giugno 2011, Vinotti, Rv. 250330).
Tale pronuncia, peraltro, risulta affatto in termini col caso oggetto del presente scrutinio di legittimità, sotto il profilo che la sanzione, inflitta al ricorrente colla sentenza 13 ottobre 1998 di applicazione della pena su richiesta (un anno, quattro mesi di reclusione e Lire 4.000.000 di multa) non eccede, per l'appunto, il limite di due anni di reclusione.
4.1.3. La Corte ritiene di dover comporre il contrasto colla riaffermazione del precedente indirizzo, disattendendo il contrario arresto, rimasto peraltro isolato.
4.1.4. La succitata sentenza Vinotti ha, innanzi tutto, argomentato che i difformi precedenti di legittimità non fossero pertinenti, in quanto in tutti i suddetti «casi l'ultima sentenza di condanna per delitto non colposo, riportata da chi era stato già condannato più volte non risultava emessa ai sensi dell'art. 444, comma 2, e 445, comma 1, c.p.p.»; quindi, ha invocato il principio di diritto affermato nella sentenza Plesescu secondo la quale, «la dichiarazione di abitualità nel reato, tanto se ritenuta dal giudice quanto se presunta dalla legge, è da considerare incompatibile con la pronuncia della sentenza di applicazione della pena su richiesta» (Sez. 5, n. 27994 del 20 maggio 2004 - dep. 22 giugno 2004, Rv. 228685) e ha espressamente fatto propria la considerazione del succitato arresto sul punto che «la dichiarazione di abitualità operata dal giudice in base a valutazione discrezionale, che deve essere sorretta da adeguata motivazione, non è sicuramente compatibile colla sentenza di cui all'art. 444 c.p.p.».
4.1.5. Orbene, si deve obiettare in limine che ai fini della risoluzione della quaestio iuris in esame è affatto irrilevante se più di una di una - ovvero tutte - le sentenze a carico del condannato siano state deliberate col rito della applicazione della pena su richiesta e se col rito in questione sia stata pronunciata la sentenza più recente.
Non è, per vero, in discussione il particolare tema della dichiarazione di abitualità nella sede del giudizio col rito della applicazione della pena su richiesta.
In proposito è intervenuto il legislatore colla novella del 12 giugno 2003, n. 134, la quale ha modificato gli artt. 444 e 445 c.p.p.
Gli originari divieti della condanna alle spese del procedimento e alla applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza personali sono stati rimossi in relazione al patteggiamento c.d. allargato introdotto dalla novella; mentre restano confermati, ai sensi dell'art. 445, comma 1, c.p.p. solo «quando la pena irrogata non superi i due anni di pena detentiva soli o congiunti a pena pecuniaria».
4.1.6. La quaestio iuris in esame concerne, invece, i presupposti di diritto penale sostanziale per la dichiarazione di abitualità e la conseguente applicazione della misura di sicurezza nella sede propria del processo (per l'applicazione delle misure) di sicurezza davanti alla magistratura di sorveglianza.
Sicché è ininfluente la considerazione del divieto che - al pari di quelli relativi alla condanna al pagamento delle spese processuali e alla applicazione delle pene accessorie - concerne (sul piano esclusivamente processuale) i provvedimenti decisori dei giudizi celebrati col rito della applicazione della pena su richiesta, con riferimento alla particolare tipologia del rito, contemplata dall'art. 445, comma 1, c.p.p.
Non pertinente si rivela, dunque, rispetto al thema decidendi, la statuizione della sentenza Plesescu circa la esclusione - in conformità del divieto normativo - della dichiarazione di abitualità colla sentenza di applicazione della pena su richiesta.
4.1.7. Residuano il rilievo della supposta incompatibilità tra la struttura della motivazione della sentenza di patteggiamento e il costrutto argomentativo-valutativo che deve sorreggere l'accertamento della abitualità ritenuta dal giudice e la ulteriore inferenza che la succitata incompatibilità, proiettandosi oltre il giudizio di applicazione della pena su richiesta, non consentirebbe al giudice del processo di sicurezza di tener conto ai fini della condizione di legge, in ordine alle condanne riportate dal delinquente, della sentenza (o delle sentenze) pronunciate ai sensi dell'art. 444 c.p.p.
4.1.8. Ma l'assunto della pretesa incompatibilità tra la tipologia delle sentenze di applicazione della pena su richiesta e la applicazione delle misure di sicurezza personali risulta confutato in radice, per effetto della citata novella del 12 giugno 2003, dal dato del diritto positivo.
E, peraltro, la giurisprudenza di questa Corte suprema di cassazione non ha mancato di chiarire che il giudice, quando colla sentenza di patteggiamento (fuori dalla particolare ipotesi del mantenimento del divieto di cui all'art. 445, comma 1, c.p.p.), dispone una misura di sicurezza personale - o reale, diversa dalla confisca obbligatoria - deve integrare «la motivazione sommaria propria del rito speciale», dando conto della ricorrenza dei presupposti e delle condizioni per la applicazione della misura di sicurezza e della prognosi di pericolosità (Sez. 4, n. 43943 del 22 settembre 2005 - dep. 2 dicembre 2005, Orenze Catipon, Rv. 232733 e Sez. 4, n. 42317 dell'8 giugno 2004 - dep. 29 ottobre 2004, Kola, Rv. 231006).
Sicché il rito della applicazione della pena su richiesta di per sé non costituisce, in assoluto, alcun ostacolo per la applicazione della misura di sicurezza personale già nella fase del giudizio.
4.1.9. Nel diverso ambito - ed è il caso che rileva nella sede del presente scrutinio di legittimità - del processo di sicurezza la questione che si pone non è certamente quella, se nella sentenza (o nelle sentenze) di applicazione della pena su richiesta a carico del delinquente sia già stata accertata la sua pericolosità ovvero se già dalla ridetta sentenza risultino compiutamente tutti gli elementi di fatto necessari e sufficienti per il relativo accertamento.
All'accertamento in parola deve autonomamente provvedere, secondo i parameri indicati nell'art. 103 c.p., il giudice della misura di sicurezza.
La questione di diritto che rileva è invece - giova ribadire - se la sentenza di applicazione della pena su richiesta concorra, ovvero no, a integrare il presupposto di legge della pluralità della condanne, richiesto dall'art. 103 c.p., perché il giudice possa, quindi, procedere all'accertamento della dedizione al delitto, con i poteri officiosi di cui agli artt. 678 e 666 c.p.p., «tenuto conto della specie e della gravità dei reati, del tempo entro il quale sono stati commessi, della condotta o del genere di vita del colpevole e della altre circostanze indicate nel capoverso dell'art. 133» c.p.
E, in proposito, si impone la soluzione positiva.
Il secondo inciso dell'art. 445, comma 1-bis, c.p.p. (introdotto dalla novella in parola) sancisce che la sentenza di applicazione della pena su richiesta «è equiparata a una sentenza di condanna», fatte salve «diverse disposizioni di legge». Tanto comporta che, in mancanza di espressa e specifica clausola normativa di esclusione, non possa, altrimenti, negarsi che la sentenza di patteggiamento rilevi, a tutti gli effetti, come sentenza di condanna.
Epperò, in difetto di alcuna disposizione derogatoria contenuta nell'art. 103 c.p. (o in altro articolo), risulta incontestabile - in virtù della ridetta equiparazione alla sentenza di condanna - la rilevanza della sentenza di applicazione della pena su richiesta, quale titolo formale, idoneo a concorrere alla integrazione del requisito di legge (della pluralità della condanne), richiesto per l'accertamento della abitualità ritenuta dal giudice.
4.2. Le residue censure del ricorrente sono manifestamente infondate.
Non ricorre - alla evidenza - il vizio della violazione di legge né sotto il profilo della inosservanza (per non aver il giudice a quo applicato una determinata disposizione in relazione all'operata rappresentazione del fatto corrispondente alla previsione della norma, ovvero per averla applicata sul presupposto dell'accertamento di un fatto diverso da quello contemplato dalla fattispecie).
E neppure palesemente ricorre vizio alcuno della motivazione.
Il giudice a quo ha dato conto adeguatamente - come illustrato nel paragrafo che precede sub 1. - delle ragioni della propria decisione, sorretta da motivazione congrua, affatto immune da illogicità di sorta, sicuramente contenuta entro i confini della plausibile opinabilità di apprezzamento e valutazione (v. per tutte: Cass., Sez. I, 5 maggio 1967, n. 624, Maruzzella, massima n. 105775; Cass., Sez. IV, 2 dicembre 2003, n. 4842, Elia, massima n. 229369) e, pertanto, sottratta a ogni sindacato nella sede del presente scrutinio di legittimità; laddove i rilievi, le deduzioni e le doglianze espressi dal ricorrente, benché inscenati sotto la prospettazione di vitia della motivazione, si sviluppano tutti nell'orbita delle censure di merito, sicché, consistendo in motivi diversi da quelli consentiti dalla legge con il ricorso per cassazione, sono inammissibili a' termini dell'art. 606, comma 3, c.p.p.
4.3. Conseguono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Depositata il 14 maggio 2014.