Corte di cassazione
Sezione VI penale
Sentenza 23 gennaio 2014, n. 5089

RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma dichiarava l'esistenza delle condizioni per l'accoglimento della domanda di estradizione presentata dalla Repubblica di Macedonia nei confronti del cittadino macedone S.S., alias S.S., in relazione alla sentenza definitiva di condanna, pronunciata il 22 aprile 2010, con la quale la Corte di appello di Gostivar aveva riconosciuto la sua responsabilità in relazione ai reati di fabbricazione, detenzione e commercio abusivo di un fucile automatico cal. 7,62, di due cartucce e di 67 pallottole dello stesso calibro, commessi in Gostivar il 27 agosto 2002, per i quali gli era stata irrogata la pena di anni due di reclusione.

Rilevava la Corte di appello come sussistessero le condizioni previste tanto dalla Convenzione europea di estradizione di Parigi del 1957, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 30 gennaio 1963, n. 300 (pure vigente nella Repubblica di Macedonia), quanto dal nostro codice di rito, per accogliere quella richiesta di estradizione passiva. In particolare, la Corte territoriale osservava come i reati per i quali il S. era stato condannato rientrassero nel novero di quelli per i quali è consentita l'estradizione, in quanto corrispondenti alle fattispecie delittuose previste dagli artt. 10 e 12 della l. n. 497 del 1974; ed ancora come non vi fossero ragioni per ritenere che l'estradando fosse perseguitato per motivi di natura politica o che sarebbe stato sottoposto nel suo Paese a pene o trattamenti tali da configurare una violazione dei diritti fondamentali della persona.

2. Avverso tale sentenza ha presentato ricorso l'estradando, con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Pietro Carotti, il quale ha dedotto i seguenti due motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 26 Cost., 698 c.p.p. e 3 CEDU, per avere la Corte distrettuale reputato sussistenti le condizioni per l'accoglimento della richiesta di estradizione benché i reati commessi dal S. rientrino nel novero di quelli "politici", in quanto commessi durante il periodo nel quale la provincia macedone di Gostivar era interessata da incursioni dei militari dell'esercito di liberazione del confinante Kosovo, dunque consumati per potersi difendere in eventuali disordini civili conseguenti allo scioglimento della ex Jugoslavia.

2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 13 c.p. e 2 della Convenzione europea di estradizione di Parigi del 1957, ratificata e resa esecutiva in Italia dalla legge 30 gennaio 1963, n. 300, per avere la Corte di appello erroneamente considerato rispettato il principio della doppia incriminabilità benché i reati per i quali era stato condannato fossero sanzionati con pene sproporzionate tanto nel rapporto tra le due fattispecie, quanto rispetto a quelle comminate nell'ordinamento giuridico italiano.

3. Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato.

3.1. Il primo motivo del ricorso è infondato.

Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo il quale, in tema di estradizione per l'estero, la nozione di reato politico a fini estradizionali trova fondamento non nell'art. 8 c.p., nel quale il reato politico è definito in funzione repressiva, bensì nelle norme costituzionali, che lo assumono in una più ampia funzione di garanzia della persona umana, finalizzata a limitare il diritto punitivo dello Stato straniero (così, da ultimo, Sez. 6, n. 31123 del 19 giugno 2003, Baazaoui, Rv. 226520). In tale ottica va ribadito che la norma di riferimento non possa essere costituita da quella contenuta nell'art. 8 c.p., dato che, in maniera incongrua, si farebbe dipendere la nozione costituzionale da una definizione prevista da una disposizione di legge ordinaria (che, peraltro, risponde ad una logica di ampliamento della pretesa punitiva statuale), ma debba essere rappresentata da quelle dettate dagli artt. 10, comma 4, e 26, comma 2, Cost., che vietano, in generale, l'estradizione per reati politici tanto degli stranieri quanto dei cittadini: norme queste con le quali, nell'impostazione generale della Carta fondamentale, si è inteso garantire il cittadino o lo straniero dalle inammissibili pretese punitive avanzate da Stati esteri.

Tuttavia, per poter definire l'inammissibilità di tali pretese, da cui consegue il divieto di estradizione, non è possibile considerare aspetti di natura meramente "soggettiva", connessi cioè alle finalità o agli scopi delle condotte incriminate, che finirebbero per lasciare all'interprete margini di eccessiva discrezionali[tà], ma occorre valorizzare elementi di natura "oggettiva". Così, in un'ottica sostanziale, i reati sono qualificabili come politici in ragione dell'interesse giuridico che risulti leso (si pensi ai delitti di manifestazione di pensiero che siano stati consumati all'estero per contrastare regimi illiberali e tutelare libertà fondamentali), purché risultino ispirati dalla volontà di affermare valori di libertà e democrazia protetti dalla nostra Costituzione, salvo che, per la particolare atrocità ed eccezionale gravità delle modalità della loro commissione, non si pongano essi stessi in contrasto con i valori della Carta fondamentale (come avviene per i reati di terrorismo, per i quali le convenzioni internazionali tendono oramai a stabilire una sorta di "depoliticizzazione" a fini estradizionali). Tuttavia occorre ampliare la portata applicativa del divieto di estradizione, con una integrazione del "punto di vista" della politicità del reato in ragione della tutela dell'estradando sul piano processuale, comprendendo quei reati rispetto ai quali, prescindendo persino dalla loro odiosità, sia necessario garantire una tutela latamente "politica" all'interessato: è possibile, dunque, affermare che, ai fini della individuazione dell'ambito di operatività del divieto di estradizione di cui agli artt. 10, comma 4, e 26, comma 2, Cost., il reato è "politico" anche quando, indipendentemente dal bene giuridico offeso dalla condotta illecita, vi sia la fondata ragione di ritenere che, proprio per la "politicità" della condotta illecita, l'estradando possa essere sottoposto nello Stato straniero richiedente ad un processo penale non equo o alla esecuzione di una pena discriminatoria ovvero ispirata da iniziative persecutorie per ragioni politiche, che ledono diritti fondamentali dell'individuo, quali il diritto al rispetto del principio di uguaglianza, il diritto ad un equo processo ed il divieto di trattamenti disumani o degradanti verso i detenuti.

Alla luce di tali criteri ermeneutici deve escludersi l'operatività del divieto di estradizione con riferimento al caso di specie, dato che il ricorrente è stato riconosciuto colpevole di reati che in questa sede non sono qualificabili come "politici", perché dallo stesso asseritamente commessi solo per tutelare se stesso da eventuali iniziative offensive attuate da appartenenti ad altri ceppi etnici, nell'ambito territoriale, però, dello Stato democratico di propria appartenenza: reati per i quali egli è stato condannato all'esito di un processo penale svoltosi senza alcun intento di persecuzione politica e nel rispetto delle regole poste a tutela dei diritti fondamentali della persona, alle quali non risultano neppure contrapporsi le modalità di esecuzione della pena detentiva irrogata.

3.2. Il secondo motivo è manifestamente infondato.

Questa Corte ha più volte sottolineato che, ai fini della concedibilità dell'estradizione per l'estero, per soddisfare il requisito della doppia incriminabilità di cui all'art. 13, comma 2, c.p., non è necessario che lo schema astratto della norma incriminatrice dell'ordinamento straniero trovi il suo esatto corrispondente in una norma del nostro ordinamento, ma è sufficiente che lo stesso fatto sia previsto come reato da entrambi gli ordinamenti, a nulla rilevando l'eventuale diversità, oltre che del trattamento sanzionatorio, anche del titolo e di tutti gli elementi richiesti per la configurazione del reato (così, tra le molte, Sez. 6, n. 40169 del 9 novembre 2010, Schucter, Rv. 248930; Sez. 6, n. 4965 del 13 gennaio 2009, Mihai, Rv. 242697; Sez. 6, n. 47614 del 1° ottobre 2003, Buda, Rv. 227818; Sez. 1, n. 4407 del 14 settembre 1995, Aramini, Rv. 202384).

Nel caso di specie, è di tutta evidenza la sostanziale corrispondenza tra i reati per i quali il ricorrente è stato condannato in Macedonia, previsti dall'art. 396, comma 2, del codice penale di quel paese, ed i reati di fabbricazione e detenzione illegale di arma comune da sparo previsti nel nostro ordinamento dagli artt. 1 e 2 della l. n. 895 del 1967, come modificati rispettivamente dagli artt. 9 e 10 della l. n. 497 del 1974 (dovendosi considerare erroneo il riferimento, contenuto nella sentenza gravata, all'art. 12 della stessa legge, che attiene al porto illegale in luogo pubblico), senza che abbia rilevanza alcuna la lamentata circostanza di una non esatta coincidenza degli elementi costitutivi delle due anzidette fattispecie incriminatrici. Né conduce a differenti valutazioni l'asserita irragionevole sproporzione tra i limiti edittali di pena fissati dalle norme dei due ordinamenti, tenuto conto che il confronto tra le due normative dimostra una sostanziale identità di pene comminate, atteso che l'estradando è stato sanzionato con l'irrogazione della pena di due anni di reclusione, a fronte di pena edittale prevista dal codice penale macedone da un minimo di un anno ad un massimo di dieci, e che gli artt. 1 e 2 della citata nostra l. n. 895 del 1967, e succ. mod., prevedono limiti edittali di pena rispettivamente da tre a dodici anni di reclusione e da uno ad otto anni di reclusione, oltre alle pene pecuniarie.

In tale ottica è pure irrilevante la circostanza che la pena detentiva comminata per i diversi reati previsti dal comma 1 del citato art. 396 del codice penale macedone sia molto più tenue, trattandosi di disposizione riferibile a condotte illecite meno gravi di quelle la cui sussistenza è stata riconosciuta nella sentenza di condanna emessa dall'autorità giudiziaria straniera.

Resta ovviamente fermo il potere discrezionale del Ministero della giustizia di rivalutare tali circostanze al momento dell'adozione del decreto finale di estradizione.

4. Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento in favore dell'erario delle spese del presente procedimento.

Alla cancelleria vanno demandati gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. c.p.p.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 203 disp. att. c.p.p.

Depositata il 31 gennaio 2014.