Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 4 dicembre 2007, n. 25262
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 3-4 ottobre 2002 il Tribunale di Modena - nel giudizio con cui Mario Z. aveva dedotto l'inefficacia del licenziamento orale asseritamente intimatogli il 20 settembre 2000, due giorni dopo l'assunzione, da Luigi N. ed in cui questi aveva eccepito che il rapporto era cessato per dimissioni - osservava come dall'istruttoria fosse emerso che il 20 settembre 2000 il lavoratore aveva lasciato l'azienda dicendo «che se ne andava perché aveva trovato un altro posto di lavoro» - all'esito di una discussione con il N. ed un collega di lavoro, che lo aveva rimproverato di avere metodi lavorativi sbagliati, di essere lento nell'esecuzione della sua prestazione lavorativa e di rispondere in modo offensivo ai colleghi. Riteneva, tuttavia, che la frase pronunciata dallo Z. fosse «solo uno sfogo momentaneo, una sorta di reazione (indubbiamente spropositata) ai rimproveri subiti, ma non ... idonea a manifestare quell'univoca ed incondizionata volontà in cui si concreta il recesso del prestatore d'opera», e conseguentemente dichiarava che il rapporto non si era mai giuridicamente interrotto, condannando il N. a provvedere al ripristino dello stesso ed pagare allo Z. le retribuzioni dalla data della mora credendi (9 dicembre 2000), sino a quella della sentenza, con detrazione di quanto nel frattempo percepito dallo Z. a titolo di retribuzione per un altro rapporto di lavoro, nonché a versare i contributi previdenziali ed assistenziali per lo stesso periodo.
Avverso tale pronuncia, con ricorso depositato il 14 febbraio 2003, Luigi N. proponeva appello denunziandone la erroneità essendo il rapporto di lavoro cessato per dimissioni e non per licenziamento, e chiedendone l'integrale riforma. Radicatosi il contraddittorio, lo Z. si costituiva, opponendosi all'accoglimento del gravame, perché infondato.
Esperita istruttoria testimoniale, con sentenza del 4 marzo-12 luglio 2004, l'adita Corte d'appello di Bologna, considerato che l'acquisito materiale istruttorio induceva a ritenere che lo Z., nella vicenda in oggetto, aveva manifestato al N. una vera e propria volontà di dimettersi, in accoglimento del gravame, rigettava la domanda proposta con il ricorso introduttivo.
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre Mario Z. con quattro motivi. Resiste Luigi N. con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo mezzo d'impugnazione il ricorrente lamenta «violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c n. 3) e segnatamente dell'art. 116 c.p.c. ovvero omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 5)» per avere la Corte d'Appello di Bologna omesso di esaminare, e di motivare le ragioni del mancato esame, le «presunzioni semplici» allegate dal lavoratore sia per comprovare il «licenziamento orale» sia per contrastare l'accoglimento dell'opposta tesi delle «dimissioni volontarie».
In particolare, la difesa di parte ricorrente, dopo avere richiamato la giurisprudenza di questa Corte sia in tema di necessità di un'indagine rigorosa da parte del Giudice di merito in ordine alla prova delle dimissioni che si assumono rassegnate dal lavoratore, sia in tema di obbligo del Giudice di merito di valutare tutte le risultanze istruttorie acquisite e di dare conto, sia pure per implicito, di siffatta indagine, ha affermato che la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare le addotte prove di carattere «presuntivo» idonee a comprovare il «licenziamento orale» intimatogli ed a contrastare l'opposta tesi delle dimissioni volontarie.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 3) e segnatamente dell'art. 116 c.p.c. ovvero omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 5) per avere la Corte d'appello di Bologna omesso di esaminare, e di motivare le ragioni del mancato esame, le deposizioni rese dai testi Marco S. nel corso del giudizio di appello ed Antonio Z. nel corso del giudizio di primo grado».
Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la «violazione o falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 3) e segnatamente dell'art. 2729 c.c. comma 1, nonché omessa circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 5) per avere la Corte d'Appello di Bologna posto a fondamento della propria decisione fatti noti, in effetti, inesistenti o comunque non comprovati in causa ovvero per non avere indicato le ragioni della scelta dei fatti noti invocati».
Con il quarto, ed ultimo, motivo di cassazione, l'odierno ricorrente lamenta la «Violazione o falsa applicazione di norme di legge con particolare riferimento agli artt.li 116 c.p.c. e 2729 c.c. ai sensi dell'art. 360 c.p.c. n. 3) e/o omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia ai sensi dell'art. 360 c.p.c n. 5)» per avere, in ogni caso, la Corte d'Appello di Bologna erroneamente desunto, in via presuntiva, che il sig. Mario Z. avrebbe manifestato la volontà di recedere dal rapporto di lavoro da «presunzioni semplici», non caratterizzate, sia singolarmente che nel loro complesso, dai requisiti della «gravità», «precisione» e «concordanza» o, comunque, per «mancanza», «insufficiente», o «contraddittoria» motivazione sul punto della «gravità», «precisione» e «concordanza» delle singole «presunzioni», nonché per la grave illogicità che caratterizza la deduzione del «fatto ignoto» dal «fatto» asseritamene «noto».
Il ricorso, pur valutato nelle sue varie articolazioni, è destituito di fondamento.
Devesi preliminarmente rammentare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c.) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass., Sez. un., n. 13045/1997) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti. In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360, n. 5, c.p.c.) - non equivale alla revisione del «ragionamento decisorio», ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità.
Nella specie, il Giudice d'appello, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, ha ampiamente e coerentemente spiegato le ragioni per cui ha ritenuto prive di pregio le prove addotte dallo Z.
La Corte bolognese, infatti, proprio al fine di procedere ad una indagine accurata, ha ritenuto di disporre una integrazione dell'istruttoria esperita nel giudizio di primo grado, ritenendola carente circa «l'acquisizione dei fatti che il Tribunale ha utilizzato nel valutare le risultanze istruttorie», e ha anche proceduto ad esaminare analiticamente tutti gli elementi presuntivi addotti dal medesimo Z., esponendo in maniera adeguata, senza incorrere in vizi logici e giuridici, le ragioni per cui ha ritenuto i suddetti elementi presuntivi privi di pregio.
Dunque, la Corte d'Appello di Bologna, ben lungi dall'aver trascurato di valutare il contesto in cui è maturata la decisione del sig. Z. di lasciare il lavoro presso la ditta N., ha invece scrupolosamente indagato su tale contesto e, dopo aver accertato che fra le parti non vi era alcuna situazione di tensione ovvero di conflitto (peraltro difficilmente ipotizzabile, tenendo conto che il sig. Z. lavorava presso la ditta N. soltanto da due giorni), ma che in realtà l'unico episodio verificatosi era quello della mattina del 20 settembre 2000, nel corso del quale il lavoratore non aveva ricevuto alcun rimprovero da parte del datore di lavoro, mentre era stato il medesimo Z. a lamentarsi dei metodi lavorativi dei suoi colleghi e poi aveva dichiarato che se ne andava, ha correttamente attribuito alla dichiarazione «che se ne andava, perché aveva trovato un altro posto di lavoro», il significato di dimissioni.
Si legge infatti nella sentenza: «Contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, già quanto sin qui evidenziato porta ad escludere che lo Z. - dicendo di andar via, senza neppure iniziare la prestazione lavorativa di quel giorno - intendesse solo reagire ad un rimprovero e, soprattutto, che non avesse la volontà di porre fine al rapporto di lavoro con il N. Non può essere trascurato, infatti, che era stato lo stesso Z. ad iniziare a lamentarsi dei metodi dei colleghi: nella replica di uno di loro, presente al colloquio, non può quindi ravvisarsi un rimprovero proveniente dal datore di lavoro, pur se questi mostrava di condividerne le valutazioni circa i metodi di lavoro cui aveva fatto riferimento lo Z.».
Da quanto sopra esposto risulta dunque l'infondatezza del ricorso, tanto più se si considera che il Giudice di merito non è tenuto a richiamare analiticamente in sentenza tutte le prove valutate e a dare conto per tutte delle scelte effettuate, potendo farlo anche per implicito.
Il ricorso va, pertanto, rigettato.
La peculiarità della fattispecie concreta, unitamente alla discordanza delle decisioni dei Giudici di merito, induce a compensare tra le parti le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.