Corte di cassazione
Sezione I civile
Sentenza 16 novembre 2005, n. 23071
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Sig. Vittorio S. propose, con ricorso depositato il 16 ottobre 1997, domanda di separazione della moglie Sig.ra Annamaria C., dichiarandosi disposto a sostenere economicamente il figlio sino al completamento degli studi universitari ed a versare alla moglie un assegno di lire 750.000 mensili.
La Sig.ra C. si oppose alla separazione e chiese pronunciarsene, comunque, l'addebito a carico del marito; chiese, altresì, l'assegnazione della casa coniugale ed un assegno, per sé ed il figlio maggiorenne convivente, di lire 2.500.000 mensili.
Istruita la causa con documenti e testimonianze, l'adito Tribunale di Udine pronunziò la separazione, addebitandola al Sig. S., che condannò, altresì, a versare alla moglie un assegno di lire 800.000 mensili.
Sul gravame principale del S., che censurava la pronunzia dell'addebito a suo carico, e quello incidentale della C., che chiedeva l'aumento dell'assegno riconosciutole, la Corte di appello di Udine, con sentenza del 23 settembre 2002, ha riformato parzialmente la sentenza di primo grado, rigettando, in accoglimento dell'appello principale, la domanda di addebito a carico del S.; ha confermato, per il resto, la sentenza impugnata, rigettando l'appello incidentale.
In punto addebito della separazione per violazione del dovere di rispetto, la Corte ha esaminato le condotte mediante le quali il Sig. S. aveva, secondo la sentenza di primo grado, umiliato e maltrattato moralmente la moglie, nonostante questa gli avesse perdonato l'infedeltà per una relazione extraconiugale del 1990. Ha osservato in proposito:
- che l'abitudine del S. di uscire da solo la sera, negli ultimi anni prima della separazione, non si spiegava, come invece avevano adombrato le testi escusse, con una sua relazione extraconiugale: tesi basata solo su voci e sconfessata dalla stessa Sig.ra C., la quale si doleva soltanto delle uscite serali del marito, sicché neppure il giudice di primo grado aveva ritenuto che causa della rottura del matrimonio fosse l'infedeltà;
- che, se le testi avevano sostenuto che il S. per più anni aveva trascorso da solo le vacanze estive, la C., invece, lamentava nella comparsa di costituzione in giudizio che ciò era avvenuto soltanto nel 1997 - dunque nell'immediata prossimità della richiesta di separazione - senza sottolineare che era un'abitudine;
- che comunque tali due condotte (uscite serali e vacanze trascorse da solo), "quand'anche provate", erano dalle stesse testimoni correlate all'esigenza di libertà dall'oppressione della famiglia, manifestata dal S.; sicché esse non già avevano cagionato la crisi coniugale - dovuta al progressivo venir meno dell'affectio maritalis per altre ragioni - ma ne erano al contrario l'espressione;
- che le frequenti affermazioni di disistima del marito nei confronti della moglie in presenza di terzi - frasi pronunciate, secondo le stesse testi che ne avevano riferito in giudizio, in tono formalmente scherzoso, anche se la Sig.ra C. mostrava di sentirsene offesa - apparivano fatte senza intenzione offensiva ed erano apprezzate dagli amici come battute scherzose, e certamente non era possibile considerarle motivo scatenante della crisi coniugale e porla a fondamento dell'addebito: tanto ciò era vero che la Sig.ra C. si era opposta alla separazione, evidentemente non ritenendo intollerabile convivere con il marito, nonostante le sue battute di cattivo gusto.
In punto determinazione dell'assegno, sotto il profilo della sua idoneità a consentire il mantenimento del pregresso tenore di vita, la Corte ha osservato che corretta era la decisione del Tribunale (che lo aveva determinato in lire 800.000 mensili), atteso che:
- ciascun coniuge era proprietario dell'alloggio in cui abitava, e nessun rilievo aveva la circostanza che la C., per acquistare, a seguito della separazione, la casa in cui viveva da sola in città, avesse dovuto vendere un suo immobile in Lignano, ove la famiglia era solita trascorrere le vacanze: infatti anche per il marito era venuta meno, con la separazione, la possibilità di godere di una casa per le vacanze;
- la C. percepiva uno stipendio di lire 2.300.000 mensili ed il S. di lire 5.500.000, sicché, detratto da quest'ultimo l'importo dell'assegno di lire 800.000 (che andava ad incrementare il reddito della moglie), e le spese di mantenimento del figlio maggiorenne, i redditi dei due coniugi finivano con l'equivalersi e consentivano ad entrambi di mantenere un buon livello di vita;
- di certo un reddito netto mensile superiore a lire 3.000.000 consentiva alla Sig.ra C. di mantenere inalterato il suo tenore di vita, considerato che non doveva più sopportare il costo del mantenimento del figlio.
Avverso la sentenza di appello ricorre per cassazione la Sig.ra C., articolando due motivi. Resiste con controricorso il Sig. S.. Entrambe le parti hanno prodotto memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso riguarda la statuizione di esclusione dell'addebito. La ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione dell'art. 151, comma 2, c.c., lamenta:
a) in primo luogo, che la Corte di appello abbia omesso la necessaria valutazione complessiva dei reciproci comportamenti dei coniugi ed abbia esaminato, invece, isolatamente ciascun comportamento del marito escludendone non la sussistenza, bensì la rilevanza - isolatamente considerato - ai fini dell'addebito della separazione;
b) in secondo luogo, che anche procedendo all'esame dei singoli argomenti spesi dalla Corte di merito "si rinvengono numerose violazioni rilevanti ai sensi dell'art. 360, n. 3, c.p.c.". Infatti:
ba) le solitarie uscite serali del S. erano rilevanti per se stesse, e non solo in quanto strumento per consumare l'ulteriore violazione dei doveri coniugali costituita dalla relazione sentimentale con un'altra donna;
bb) «il giudice di primo grado aveva correttamente valutato, in termini ovviamente negativi per il S., l'episodio pacifico di infedeltà di quest'ultimo, mentre la Corte di appello non vi ha fatto cenno»; il che configurerebbe «una tipica ipotesi non solo di violazione, ma anche di falsa applicazione» dell'art. 151, comma 2, c.c.;
bc) in ogni caso, la teste G. aveva riferito di aver saputo da vari conoscenti che il S. aveva ripreso la relazione extraconiugale con quella stessa donna cui si riferiva il risalente, pacifico episodio di infedeltà;
bd) quanto alle ferie estive trascorse da solo dal S., l'argomento addotto nella sentenza impugnata per escludere che si trattasse di un'abitudine è irrilevante ed infondato; irrilevante perché nel capitolo di prova testimoniale articolato in proposito dalla C. nella memoria istruttoria depositata in primo grado si fa espresso riferimento a "periodi" di vacanza trascorsi da solo dal S., e dunque a una pluralità di episodi, infondato perché non costituisce confutazione del fatto dedotto (ferie estive ripetutamente trascorse da solo);
be) la esclusione della rilevanza delle due condotte sin qui esaminate e l'interpretazione delle stesse quali mere manifestazioni di disagio per la vita in comune, si fonda su un presupposto non provato, provenendo tale interpretazione dal solo interessato (le testimoni si erano limitate a riferire sue dichiarazioni); il che integra vizio di motivazione della sentenza, costituito dall'aver assunto quale fatto accertato l'esigenza di libertà del S., dall'avere da ciò indotto un preesistente stato di crisi coniugale non addebitabile al marito e dall'aver considerato perciò giustificati i comportamenti di lui, secondo un iter logico nel quale la premessa è indimostrata e, dunque, non può fondare alcuna presunzione, peraltro in difetto dei requisiti della gravità, precisione e univocità degli indizi;
bf) quanto alla condotta di maltrattamento morale nei confronti della moglie mediante le battute pronunciate in presenza di terze persone, è errata la motivazione della sentenza in punto di valutazione della testimonianza acquisita, giacché una delle testi riferiva di "punzecchiature, ma molto pesanti" e soltanto l'altra parlava di "scherzo", ma nel senso che le battute erano del S. pronunciate non "per scherzo", bensì "come per scherzo"; sicché non poteva dirsi che quelle battute erano apprezzate dagli amici come "battute scherzose" e, conseguentemente, che non integrassero gli estremi per l'addebito;
bg) quanto all'argomento della opposizione della Sig.ra C. alla separazione, speso dalla Corte di appello "per negare la natura offensiva del comportamento del S.", la domanda di addebito - nella specie contenuta nella stessa comparsa di costituzione contenente l'opposizione - non è preclusa da quest'ultima, e nel nostro ordinamento è sufficiente la volontà di uno solo dei coniugi a provocare la separazione. In ogni caso, come efficacemente sostenuto dal giudice di primo grado, sarebbe paradossale che il coniuge che ha violato i doveri del matrimonio traesse beneficio proprio dalla debolezza dell'altro coniuge, che tali violazioni ha subito;
bh) la Corte di appello, infine, non ha contestato il giudizio formulato dal Tribunale circa il nesso causale sussistente tra il complessivo comportamento del marito e la malattia (depressione) della moglie, in atti documentata e causata dal comportamento complessivo del marito.
2. Il motivo è inammissibile.
La pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l'art. 143 c.c. pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale (ex multis, Cassazione 12130/2001, 279/2000, 2444/1999, 7817/1997).
Quella che il ricorso definisce, genericamente, negazione della "rilevanza a fondare l'addebito" è, appunto, nella sentenza impugnata, anzitutto negazione - più specificamente - della efficienza causale dei comportamenti del S. rispetto alla crisi coniugale e alla intollerabilità della convivenza. Tale valutazione dei giudici di merito si colloca su un piano diverso da quello della valutazione comparativa - invocata dalla ricorrente - dei reciproci comportamenti dei coniugi, la quale attiene, invece, alla giustificabilità dei comportamenti di ciascuno.
La ricorrente, pertanto, avrebbe dovuto censurare la sentenza sul punto della esclusione del nesso casuale tra i comportamenti del marito e la separazione, e dedurre che quei comportamenti erano stati causa della separazione stessa, perché avevano reso intollerabile la convivenza. Ella, invece, lamenta soltanto la minimizzazione, da parte dei giudici di appello, delle violazioni dei doveri coniugali poste in essere del marito, formulando censure (peraltro nella più gran parte sostanzialmente di merito) che attengono al profilo del giudizio di valore sui comportamenti, ma non a quello del nesso di causalità tra i comportamenti stessi e la intollerabilità della vita in comune.
La confusione tra il piano del nesso di causalità e quello del giudizio di valore sulla condotta del coniuge è evidente anche, e particolarmente, nella censura sub bg) ove si sostiene che la sentenza impugnata faccia leva sull'opposizione della Sig.ra C. alla separazione "per negare la natura offensiva del comportamento del S."; mentre, invece, i giudici di merito hanno escluso che tale comportamento sia stato "motivo scatenante della crisi, stante proprio l'atteggiamento processuale assunto dall'appellata": dunque hanno escluso, più che l'offensività del comportamento, che lo stesso fosse causa della intollerabilità della convivenza.
3. Il secondo motivo di ricorso attiene alla determinazione dell'assegno. La ricorrente, denunciando violazione dell'art. 156 c.c., censura la motivazione della sentenza impugnata:
- per aver ritenuto ininfluente la circostanza che ella aveva dovuto vendere un suo immobile in Lignano, ove la famiglia era solita trascorrere le vacanze estive, per poter acquistare un appartamento in città, visto che la casa coniugale era stata assegnata al marito; sicché il suo tenore di vita si era ridotto, per l'indisponibilità di tale risorsa, rispetto a quello goduto prima della separazione, e nulla valeva l'osservazione della Corte di appello, secondo cui neppure il marito poteva più beneficiare della medesima risorsa, atteso che il confronto va operato esclusivamente fra il tenore di vita goduto dal beneficiario dell'assegno in epoca antecedente alla separazione e quello goduto in epoca successiva;
- per non aver considerato che, con il versamento dell'assegno determinato in lire 800.000 mensili, anche a causa della diversa incidenza fiscale dell'assegno stesso (che per il S. costituiva un onere deducibile, con un beneficio fiscale di lire 320.000 mensili, mentre per lei costituiva reddito imponibile) il reddito residuo del marito (lire 5.020.000 nette mensili, cui andavano sottratte lire 1.050.000 per il mantenimento del figlio) risultava di gran lunga superiore al suo (lire 2.838.000).
4. Anche questo motivo non può trovare accoglimento.
La conservazione del precedente tenore di vita da parte del coniuge beneficiario dell'assegno costituisce, infatti, un obiettivo tendenziale, e non sempre la separazione, aumentando le spese fisse dei coniugi, ne consente la realizzazione; sicché esso va perseguito nei limiti consentiti dalle condizioni economiche del coniuge obbligato, richiamate dall'art. 156, comma 2, c.c. (cfr., in particolare, Cassazione 7630/1997). Non ha pregio, quindi, quale censura di violazione di legge (art. 156 c.c.), il rilievo della ricorrente di aver visto ridimensionato il suo pregresso tenore di vita per aver dovuto rinunciare alla casa al mare.
La determinazione, poi, dei limiti entro i quali sia possibile perseguire il suddetto obiettivo è, evidentemente, riservata al giudice di merito, cui spetta la valutazione comparativa delle risorse dei due coniugi al fine di stabilire in quale misura l'uno debba integrare i redditi insufficienti dell'altro. Tale valutazione la Corte di appello ha compiuto, dandone conto nella motivazione, cui la ricorrente muove censure sostanzialmente di merito, sostenendo, in definitiva, che l'assegno avrebbe dovuto essere determinato in un importo maggiore per il solo fatto che il marito finiva con il godere di un reddito netto superiore al suo.
5. Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese processuali, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del giudizio di legittimità, liquidate in euro 2100 di cui 2000 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.