Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 28 luglio 2005, n. 15783

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del 10 luglio 1990 i coniugi A.D.C. e S.S., nella qualità di genitori esercenti la potestà sul figlio minore Roberto, nato il 1° aprile 1981, ed A.D.C. anche in proprio, convenivano in giudizio G.N. dinanzi al Tribunale di S. Maria Capua Vetere, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti dal minore in occasione dell'incidente stradale verificatosi il 13 ottobre 1989, nel quale erano rimaste coinvolte l'autovettura condotta dall'attore ed un trattore con rimorchio di proprietà e condotto dal N., nonché al ristoro degli ulteriori danni derivati all'autoveicolo.

Il N., costituitosi, contestava il fondamento della domanda e proponeva domanda riconvenzionale diretta a conseguire il risarcimento del danno subito dal proprio mezzo.

Interrotto il processo per la morte del convenuto e riassunto dagli attori, si costituivano gli eredi Domenico, Pasquale, Giulia e Paolina N..

Con sentenza del 26 aprile-14 settembre 1999 il Tribunale, ritenuta la responsabilità esclusiva del N., condannava gli eredi in solido al risarcimento del danno subito da A.D.C. relativamente alla vettura, liquidato in L. 8.000.000, e di quello subito da Roberto D.C. per le lesioni personali riportate, pari a L. 782.211.000.

Gli eredi N. proponevano appello avverso tale sentenza con atto notificato il 17 gennaio 2000 ad A.D.C. e S.S., nella qualità di esercenti la potestà sul figlio non più minore nonché ad A.D.C. in proprio, quale proprietario dell'autovettura danneggiata. Gli appellati si costituivano in proprio e nella qualità e chiedevano in via incidentale la rivalutazione delle somme liquidate dal primo giudice, con i relativi interessi, e la correzione del dispositivo di condanna anche in favore della S., quale esercente la potestà sul figlio.

Con sentenza del 22 giugno-6 luglio 2001 la Corte di Appello di Napoli, in riforma della pronuncia impugnata, rigettava la domanda proposta da A.D.C. e S.S., nella qualità, e dal primo in proprio; dichiarava interamente compensate tra le parti le spese del doppio grado e poneva a carico dei coniugi D.C. le spese della consulenza tecnica espletata dinanzi al Tribunale.

Avverso tale sentenza proponevano distinti ricorsi per cassazione, illustrati con memorie, Roberto D.C. ed A.D.C., in proprio. Gli eredi N. resistevano con controricorso avverso ciascuno di detti ricorsi e proponevano ricorso incidentale avverso quello proposto da A.D.C.

In particolare, con il primo e secondo motivo di ricorso Roberto D.C. deduceva la nullità della sentenza impugnata in quanto l'atto di appello era stato notificato ai genitori, nella qualità di esercenti la potestà, in una data in cui egli era già divenuto maggiorenne, onde doveva ritenersi mai avvenuta la sua vocatio in ius in relazione al giudizio di gravame.

All'udienza dell'11 aprile 2003 il Collegio della terza sezione civile, cui la causa era stata assegnata, riuniti i ricorsi, richiamato il contrasto giurisprudenziale esistente circa la validità dell'impugnazione proposta nei confronti di soggetto minore, divenuto maggiorenne nelle more del giudizio, notificata non a lui personalmente, ma ai suoi genitori, nella qualità di esercenti la potestà, rimetteva gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

I ricorsi riuniti erano quindi rimessi all'esame di queste Sezioni Unite.

Roberto D.C. e gli eredi N. depositavano ulteriori memorie. All'udienza dell'8 luglio 2004, fissata per la discussione dei ricorsi, il Collegio, rilevato che, non esistendo in atti il fascicolo di ufficio del giudizio di primo grado, non era possibile stabilire con esattezza - anche a fronte di alcuni elementi contrastanti contenuti negli scritti difensivi delle parti - in quale momento del processo fosse intervenuto il raggiungimento della maggiore età da parte di Roberto D.C., rinviava a nuovo ruolo, disponendo per l'acquisizione di detto fascicolo.

I ricorsi erano quindi nuovamente chiamati per la discussione all'udienza odierna. Roberto D.C. e gli eredi N. depositavano ancora memorie illustrative.

MOTIVI DELLA DECISIONE

La disposta acquisizione del fascicolo di ufficio relativo al primo grado del giudizio ha consentito di accertare che la data del 1° aprile 1999, in cui Roberto D.C. divenne maggiorenne, e conseguentemente i suoi genitori persero la rappresentanza legale e la capacità processuale, intervenne in un momento precedente l'udienza, fissata ai sensi dell'art. 13 della l. 276/1997 e svoltasi il 19 aprile 1999, nella quale il giudice onorario aggregato della sezione stralcio - cui la causa era stata assegnata dopo la rimessione al collegio ai sensi dell'art. 189 c.p.c. - si riservò la decisione, concedendo alle parti i termini per il deposito di memorie.

Resta così definito l'ambito del contrasto sul quale queste Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciare, relativo alla incidenza del raggiungimento della maggiore età da parte di soggetto costituito in giudizio a mezzo dei suoi legali rappresentanti, verificatosi nel corso del giudizio di primo grado, prima della chiusura della discussione (ovvero prima della scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, ai sensi del nuovo testo dell'art. 190 c.p.c.), e non dichiarato né notificato, ai fini della individuazione del destinatario della notifica dell'impugnazione.

Su tale questione gli orientamenti della giurisprudenza, come rilevato nell'ordinanza che ha segnalato il contrasto, sono estremamente diversificati.

Secondo un primo indirizzo, se il raggiungimento della maggiore età da parte del minore costituito nel processo per mezzo del suo legale rappresentante non sia formalmente dichiarato o notificato ai sensi dell'art. 300 c.p.c., tale evento resta privo di rilevanza anche nelle fasi ulteriori del processo, che prosegue regolarmente nei confronti del legale rappresentante, al quale pertanto va notificata l'impugnazione avverso la sentenza, senza che rilevi la conoscenza aliunde dell'evento stesso da parte del notificante (v., tra le altre, Cassazione 15323/2003; 1268/2003; 15220/2001; 1646/2001; 11966/1998; 55931/1998; 2486/1998; 6561/1997; 1814/1995; 9277/1994; 7709/1990; 2670/1989; 5181/1998; 4737/1984; 6400/1982).

Secondo un diverso orientamento - seguito prevalentemente con riguardo ad eventi intervenuti dopo il deposito della sentenza, ma sovente sorretto da affermazioni di carattere generale, prive di riferimento alla collocazione dell'evento nell'ambito del processo, talvolta neppure desumibile dalla parte espositiva delle decisioni - l'autonomia dei singoli gradi di giudizio comporta che il principio di ultrattività della rappresentanza spieghi efficacia soltanto nell'ambito della relativa fase processuale, non potendo considerarsi fittiziamente immutata nelle fasi ulteriori la situazione soggettiva delle parti, né invariate le condizioni di validità della loro costituzione, che vanno verificate in ciascuna fase successiva, con la conseguenza che l'impugnazione deve essere notificata al soggetto divenuto maggiorenne (Cassazione 8827/2003; 12758/2000; 8380/2000; 6480/2000; 9175/1998; 1744/1997).

In adesione a tale orientamento si è ritenuta l'inammissibilità dell'appello proposto dalla parte nei cui confronti si sia verificata, nel corso del giudizio di primo grado, la perdita della capacità di stare in giudizio quale legale rappresentante del figlio per l'intervenuto raggiungimento della maggiore età (Cassazione 9387/2001; 9452/2000; 13041/1995; 5032/1991).

Esiste ancora un filone giurisprudenziale intermedio rispetto a tali opposti indirizzi, che ha trovato espressione in numerose decisioni concernenti l'ipotesi in cui la capacità del genitore di stare in giudizio in rappresentanza del figlio minore sia venuta meno per il raggiungimento della maggiore età dopo la conclusione dei processo di primo grado, così che il relativo evento non sia più suscettibile di dichiarazione o notificazione ad iniziativa del procuratore costituito, ma anche in tal caso sovente sostenute da argomentazioni di carattere generale, e quindi estensibili all'ipotesi in cui detto evento si sia verificato nella fase attiva del processo, ma non sia stato dichiarato né notificato dal procuratore, le quali hanno affermato che l'impugnazione notificata al rappresentante legale, piuttosto che al figlio ormai maggiorenne, è valida o invalida a seconda che dagli atti del processo risulti che il notificante abbia ignorato senza colpa o conosciuto o ignorato colpevolmente l'avvenuto raggiungimento della maggiore età (Cassazione 491/2003; 1206/2002; 3349/2001; 12610/1998; 10111/1997; 3847/1996; 8612/1990).

Secondo tale orientamento, che appare chiaramente ispirato dall'esigenza di contemperare le ragioni della parte colpita dall'evento con quelle dell'altra parte senza sua colpa ignara dell'evento stesso, il discrimine tra la validità e l'invalidità della notifica al legale rappresentante è dunque fornito dalla rilevabilità ad opera della parte notificante del dato anagrafico, sulla base di un esame normalmente diligente degli atti processuali.

Nell'ambito di quest'ultimo indirizzo sono peraltro enucleabili due distinte posizioni in relazione all'attribuzione dell'onere della prova circa l'ignoranza incolpevole del mutamento della capacità della parte destinataria della notificazione, ritenendosi in alcune pronunce che la dimostrazione della non consapevolezza senza colpa debba essere fornita dal notificante, affermandosi in altre che spetta alla parte che abbia ricevuto o che avrebbe dovuto ricevere l'atto di impugnazione provare la conoscenza o conoscibilità dell'evento.

Le oscillazioni interpretative sopra richiamate, specificamente concernenti il raggiungimento della maggiore età di una delle parti del giudizio, riflettono il pendolarismo della giurisprudenza nella soluzione della più ampia questione, dibattuta sin dai primi anni di applicazione dell'attuale codice di rito, circa il regime degli effetti di tutti gli eventi idonei a determinare l'interruzione del processo, riguardanti la parte costituita per mezzo di procuratore, nei vari momenti dell'iter processuale, ed in particolare circa il rapporto tra eventi siffatti ed impugnazione.

Il lungo travaglio giurisprudenziale, segnato da una sterminata produzione di pronunce orientate per l'una o per l'altra soluzione, rivela la complessità della questione, alla cui definizione non forniscono adeguato supporto né il criterio letterale, né quello logico di interpretazione delle norme coinvolte, ugualmente invocati a sostegno di ognuno di tali indirizzi, così da apparire, appunto in ragione della loro ambivalenza, del tutto insufficienti.

Ed invero, dalla lettura degli artt. 286, 299, 300, 328, 330 c.p.c. emerge che il legislatore ha regolato in modo espresso e diversificato gli effetti degli eventi interruttivi relativi alle parti del processo verificatisi prima della costituzione in giudizio, ovvero durante la fase attiva, ovvero dopo la discussione, o ancora dopo la pubblicazione della sentenza o dopo la sua notificazione, ma non ha affatto disciplinato, con riferimento alle fasi successive, il caso di evento verificatosi nella fase attiva, ma non dichiarato né notificato dal procuratore della parte costituita: il silenzio del legislatore deve pertanto essere colmato attraverso una delicata opera di coordinamento delle frammentarie indicazioni offerte da dette disposizioni e soprattutto mediante una lettura globale e sistematica della normativa di riferimento, tenuto conto delle esigenze fondamentali di tutela del diritto di difesa e di azione di tutte le parti del processo e della garanzia del principio del contraddittorio, che il nuovo testo dell'art. 111 Cost. ha riconosciuto con il crisma della definitività quale principio fondante della giurisdizione.

L'impegno interpretativo compiuto negli anni da questa Suprema Corte appare tuttora influenzato dalle tre note e contestuali pronunce delle Sezioni Unite 1228, 1229 e 1230 del 1984, che, prendendo in esame la rilevanza del decesso o della perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, verificatisi nell'intervallo tra la costituzione in giudizio e la chiusura della discussione, ma non dichiarati in udienza da detto procuratore né notificati alle altre parti, affermarono che la notifica della sentenza effettuata nei confronti del medesimo procuratore ai sensi dell'art. 285 c.p.c. è idonea a far decorrere il termine breve per l'impugnazione nei confronti degli eredi della parte deceduta o del rappresentante legale della parte divenuta incapace (sentenza 1230); che detto procuratore, ove la procura ad litem gli sia stata conferita anche per gli ulteriori gradi del giudizio, è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte originaria, da considerare nel processo ancora in vita o capace (sentenza 1229); che è ammissibile l'atto di impugnazione notificato al medesimo procuratore anche se la parte notificante abbia avuto conoscenza aliunde dell'evento (sentenza 1228).

Le richiamate decisioni mossero dalla comune premessa, assunta come elemento fondante dell'interpretazione sistematica proposta, che le diverse disposizioni dettate dal codice di rito nella materia in esame non rispondono ad un criterio unitario, ma dettano discipline tra loro differenziate, con diversità di effetti in relazione al momento del rapporto processuale nel quale l'evento si verifica, e non interferiscono e non si sovrappongono tra loro, ma restano distinte ed autonome, nel senso che, verificatosi l'evento in una determinata fase del processo e prodottosi l'effetto previsto dall'ordinamento con riferimento a quella fase, detto effetto resta regolato dalla stessa disposizione per tutto il tempo successivo, senza che su di esso possa incidere la disciplina prevista in relazione al verificarsi dell'evento in altri momenti del rapporto processuale.

Ne consegue che, ove l'evento si sia verificato - come nelle ipotesi esaminate dalle sentenze stesse e come nella fattispecie qui in esame - durante la fase attiva del processo, prima della chiusura della discussione, la mancata dichiarazione o notificazione di esso da parte del procuratore impedisce il realizzarsi della fattispecie interruttiva, e che in applicazione dell'unica disciplina operante in relazione a tale ipotesi, dettata dall'art. 300 c.p.c., l'effetto prodottosi, in positivo o in negativo, rimane fermo per tutto l'ulteriore svolgimento del rapporto processuale, potendosene produrre la modificazione soltanto in base a quell'unica normativa applicabile.

Ne deriva altresì che la posizione giuridica della parte colpita dall'evento resta stabilizzata, a prescindere da una eventuale conoscenza aliunde dell'evento stesso, come se detta parte fosse ancora vivente o capace, anche nelle successive fasi di quiescenza dopo la pubblicazione della sentenza, e di riattivazione a seguito di impugnazione, fino a che nel giudizio di impugnazione si costituiscano gli eredi della parte defunta o il rappresentante legale della parte divenuta incapace, ovvero fino a che il procuratore di detta parte, munito di procura valida anche per gli ulteriori gradi, dichiari in udienza o notifichi alle altre parti l'evento, ovvero ancora fino a che, rimasta la parte stessa contumace, l'evento sia notificato o certificato dall'ufficiale giudiziario ai sensi dell'art. 300, comma 4, c.p.c.

Aggiunsero le Sezioni Unite che l'ipotesi in cui l'evento si verifichi dopo la chiusura della discussione, ma prima della notificazione della sentenza, trova la sua disciplina nel primo comma dell'art. 286 c.p.c., il quale, disponendo che la notificazione della sentenza si può fare, anche a norma dell'art. 303, secondo comma, a coloro ai quali spetta stare in giudizio, offre alla parte che intende procedere a detta notifica al fine della decorrenza del termine breve, l'alternativa di dirigerla nei confronti dei procuratore costituito nel precedente grado ovvero, in caso di morte, dei suoi eredi, ed in caso di sopravvenuta incapacità nei confronti del rappresentante legale.

Rilevarono infine che nell'ipotesi in cui l'evento si realizzi nella fase di quiescenza del rapporto processuale, tra un grado e l'altro del processo, soccorre unicamente la disciplina dettata dall'art. 328 c.p.c., con la conseguenza che, se detto evento interviene durante il decorso del termine breve, questo è interrotto e il nuovo termine inizia a decorrere dal giorno in cui la notificazione della sentenza è rinnovata; se invece interviene durante il secondo semestre del termine annuale, detto termine è prorogato per tutte le parti di sei mesi dal giorno del suo verificarsi.

L'orientamento così espresso in relazione al decesso o alla sopravvenuta incapacità della parte costituita a mezzo di procuratore, chiaramente utilizzabile anche con riguardo ad ipotesi di acquisto da parte del soggetto già minorenne della capacità processuale, valse a conferire per qualche tempo un maggior vigore al primo degli indirizzi innanzi richiamati, come dimostra l'ampia serie di sentenze pronunciate in epoca immediatamente successiva, favorevoli alla tesi della ultrattività della rappresentanza anche nei gradi successivi a quello in cui l'evento si è verificato ed alla negazione di rilevanza della conoscenza dell'evento altrimenti acquisita dalla parte impugnante.

Indubbiamente la soluzione adottata rispondeva ad esigenze di semplificazione fortemente avvertite, fornendo un contributo di certezza alla problematica ed eliminando in radice ogni questione di opponibilità dell'evento alle parti che lo avessero senza colpa ignorato. E tuttavia ben presto i contrasti giurisprudenziali riaffiorarono con non minore vivacità, anche sulla spinta delle sollecitazioni critiche offerte da meditata ed autorevole dottrina.

Già con sentenza 5400/1985 questa Suprema Corte affermò che nell'ipotesi in cui la notizia della morte della parte costituita sia acquisita al processo ad opera della controparte che la porti a conoscenza dei giudice ai fini dell'interruzione del processo, senza peraltro che questa sia disposta per non essere stato l'evento dichiarato o notificato dal procuratore della parte deceduta, unico legittimato, il soggetto che intenda proporre impugnazione deve notificare il gravame personalmente agli eredi della parte defunta, applicandosi in via analogica, a causa della estinzione del mandato e della conseguente non operatività della precedente elezione di domicilio presso il procuratore costituito, il terzo comma dell'art. 330 c.p.c.

L'opinabilità delle soluzioni offerte dalle richiamate pronunce a sezioni unite indusse alcuni anni più tardi la prima sezione di questa Suprema Corte a sollevare, con ordinanza del 5 luglio 1996, la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 300 e 330 c.p.c., nella parte in cui disponeva, secondo l'interpretazione in dette pronunce fornita, che in caso di mancata dichiarazione o notificazione a cura del procuratore della parte da lui assistita, verificatasi anteriormente alla chiusura della discussione, l'atto di impugnazione fosse validamente notificato al domicilio del procuratore stesso.

Con ordinanza 418/1997 la Corte Costituzionale dichiarò la questione manifestamente inammissibile, in relazione alla sua prospettazione, in quanto sostanzialmente rimetteva alla stessa Corte la scelta tra più soluzioni possibili e prospettate in modo ancipite attraverso la prefigurazione di un duplice possibile esito correttivo.

Un importante contributo critico alla impostazione seguita nelle sentenze del 1984 fu offerto dalle stesse Sezioni Unite nella pronuncia 11394/1996, nella quale, affrontando la questione della incidenza dell'evento morte verificatosi dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado e prima della notifica della stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre impugnazione, osservarono che la stabilizzazione come persona esistente in vita e capace della parte deceduta o divenuta incapace, enunciata nei propri precedenti arresti, costituisce una finzione non utilizzabile con riferimento all'ipotesi in cui l'evento si sia verificato tra un grado e l'altro del processo, non potendo in tal caso prescindersi dalla nuova realtà oggettiva venuta in essere, onde il nuovo grado di giudizio va instaurato da e contro i soggetti allo stato titolari della legittimazione.

Si ritenne in detta decisione che la soluzione del problema della individuazione del destinatario della notifica dell'atto di impugnazione dovesse essere rinvenuta non già nei principi della ultrattività del mandato al procuratore costituito e della non automaticità dell'interruzione del processo, bensì nel disposto dell'art. 328 c.p.c., il quale non solo pone l'evento interruttivo avvenuto dopo la sentenza conclusiva di una fase di merito come fatto incidente sui termini per la proposizione dell'impugnazione, ma risponde alla esigenza che il successivo grado di giudizio si instauri tra i soggetti effettivamente legittimati, assumendo come dato non superabile la nuova posizione delle parti interessate alla controversia e al processo. Chiaro e dichiarato era il riferimento alla teoria chiovendiana secondo la quale le parti, quando è definito un grado e deve aprirsene un altro, tornano nella situazione in cui si trova l'attore prima di proporre la domanda, cioè di dover conoscere la condizione di colui col quale intende contrarre il rapporto processuale.

Nella disciplina dettata dall'art. 328 c.p.c. le Sezioni Unite ravvisarono - attraverso una lettura corroborata dall'argomento storico, in quanto anche nell'abrogato codice di rito erano normalmente ritenuti inapplicabili alla fase processuale tra la pubblicazione della sentenza e la proposizione dell'impugnazione gli artt. 322 e ss. dello stesso codice - la prescrizione che il processo di impugnazione sia instaurato tra i soggetti effettivamente titolari del rapporto in contestazione, ed al tempo stesso la predisposizione di adeguate garanzie a tutela dei diritto di difesa del soggetto che, ignorando l'evento, possa indirizzare in direzione sbagliata il suo potere impugnatorio: in questa prospettiva ritennero che la disciplina del primo comma realizzasse un perfetto contemperamento tra la finalità che il processo di gravame si svolga tra detti soggetti e la concorrente finalità che il diritto di impugnazione non sia sottoposto ad ingiustificato pericolo di decadenza per effetto del verificarsi dell'evento durante il decorso del termine breve, mediante la previsione da parte del legislatore (non già della validità dell'impugnazione proposta da o contro la parte deceduta o divenuta incapace, ma) della necessità, a prescindere dalla eventuale conoscenza dell'evento, di una nuova notifica della sentenza da parte degli eredi o nei confronti degli eredi, ovvero da parte del legale rappresentante o nei confronti del legale rappresentante della parte divenuta incapace, idonea a far decorrere un nuovo termine breve.

Ed analogo contemperamento dette Sezioni Unite ravvisarono nella disciplina contenuta nel terzo comma con riferimento al termine annuale, con la previsione di proroga di sei mesi per l'ipotesi in cui l'evento si sia verificato nel secondo semestre dalla pubblicazione della sentenza, così da assicurare, attraverso l'incremento della distantia temporis, uno spazio temporale adeguato perché l'impugnazione possa essere proposta da o nei confronti dei nuovi soggetti, ed in particolare perché la parte soccombente interessata al gravame possa acquisire comunque conoscenza, indipendentemente da qualsiasi comunicazione di parte, dell'evento stesso ed indirizzare correttamente il suo potere impugnatorio.

Il principio, assunto in tale ricostruzione, che il processo di gravame deve essere instaurato tra i soggetti reali del rapporto non lasciava chiaramente spazio a teorie che condizionassero la necessità di spiegare l'impugnazione nella giusta direzione all'avvenuta conoscenza o alla conoscibilità dell'evento interruttivo, stante la loro incompatibilità in linea logica con tale principio e con la previsione normativa della necessità, ai fini del decorso del termine breve, di una reiterazione della notifica della sentenza al soggetto divenuto legittimato, dopo quella effettuata nei confronti del soggetto già parte in giudizio.

Le Sezioni Unite non mancarono peraltro di segnalare che la soluzione adottata poneva dubbi di incostituzionalità - che tuttavia le peculiarità della vicenda esaminata rendevano irrilevanti - in relazione ai processi sottoposti alla disciplina anteriore alla l. 353/1990, lasciando pur sempre spazio la mera proroga del termine di cui all'ultimo comma dell'art. 328 c.p.c. a situazioni di incolpevole ignoranza dell'evento e non apprestando la normativa codicistica un rimedio di restituzione in termini, a differenza delle cause soggette alla disciplina novellata, per le quali il nuovo testo dell'art. 164 c.p.c. prevede la possibilità, in relazione alle nullità riferibili ai nn. 1 e 2 dell'art. 163 c.p.c., di una sanatoria i cui effetti sostanziali e processuali si producono sin dal momento della prima notificazione.

Ritengono queste Sezioni Unite che il percorso argomentativo seguito in tale sentenza, che lasciava formalmente salva, pur incrinandone le premesse logico-giuridiche, la soluzione adottata nelle precedenti pronunce n. 1228, 1229 e 1230 del 1984 con riferimento all'evento verificatosi nella fase attiva del processo e non dichiarato né notificato, meriti ulteriore sviluppo ai fini della definizione della questione in esame.

Appare in prima approssimazione opportuno osservare che la tesi sostenuta in quelle decisioni che l'art. 300 c.p.c. disciplini in modo compiuto, con riferimento a tutti i gradi del processo, l'ipotesi di evento verificatosi nella fase attiva non può porsi come premessa ricostruttiva, costituendo piuttosto tale assunto il quid demonstrandum nella problematica in oggetto.

Al contrario, il tenore letterale di detto art. 300 c.p.c. - il quale si limita a fissare un limite oltre il quale il potere di scelta del procuratore non può più esercitarsi, salva l'ipotesi di riapertura della istruzione, e si disinteressa delle vicende successive alla emanazione della sentenza - sembra orientare l'interprete nel senso che l'irrilevanza dell'evento non dichiarato né notificato operi solo in relazione alla fase in cui esso si verifica.

Né ancora appare utilmente invocabile il principio di ultrattività del mandato, sovente richiamato dalla giurisprudenza che tende a riconoscere la persistente legittimazione del procuratore della parte originaria: va al riguardo considerato che, in assenza di specifica regolamentazione del mandato ad litem, deve trovare applicazione la normativa codicistica sulla rappresentanza e sul mandato, avente carattere generale rispetto a quella processualistica, e quindi il principio dettato dall'art. 1722, n. 4, c.c., secondo il quale la morte del mandante (e gli altri eventi assimilati, come la perdita della capacità processuale del genitore) estingue il mandato. La disciplina dettata dall'art. 300, comma 1 e 2, c.p.c., che attribuisce al procuratore la possibilità di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato, anche se sia nel frattempo deceduta o divenuta incapace, in quanto costituisce deroga a quel principio, va pertanto contenuta entro il rigoroso ambito ivi previsto, ossia nei limiti di quella fase del processo in cui si è verificato l'evento non dichiarato né notificato concernente il mandante, e non può espandersi nella successiva fase di quiescenza e di riattivazione del rapporto processuale (v. in tal senso Cassazione 11759/2002; 8380/2000).

Deve per altro aspetto osservarsi che la tendenza ad espandere nella fase successiva alla pronuncia della sentenza i principi della non automaticità dell'interruzione e della ultrattività della rappresentanza, ove l'evento non sia stato dichiarato né notificato, non solo non tiene conto delle peculiarità della fase di litispendenza successiva alla pubblicazione della sentenza, ma anche e soprattutto omette il necessario raccordo con le altre norme che disciplinano gli effetti dell'evento nei momenti successivi.

Va al riguardo considerato che, contrariamente a quanto ritenuto nelle sentenze 1228, 1229 e 1230 del 1984 circa la assoluta non coincidenza e non sovrapponibilità e la piena autonomia delle norme regolatrici degli effetti dell'evento interruttivo intervenuto nelle diverse fasi, l'art. 286 c.p.c., il quale ha riguardo ad evento verificatosi dopo la chiusura della discussione e prima della notifica della sentenza, e l'art. 328 c.p.c., il quale regola l'ipotesi di evento sopravvenuto durante il decorso dei termini per impugnare, fanno riferimento a segmenti temporali in parte coincidenti, così da comportare la necessità di un coordinamento tra le due disposizioni.

E tuttavia, una volta assunto l'art. 328 c.p.c., secondo il percorso logico seguito nella sentenza 11394/1996, come norma cardine del sistema, in quanto rivolto non solo o non tanto a modificare la decorrenza dei termini per impugnare, ma soprattutto a codificare il principio generale secondo il quale l'intervenuto mutamento della situazione soggettiva della parte incide sulla legittimazione alla notificazione attiva e passiva della sentenza, su quella attiva ad impugnare e quella passiva a ricevere la relativa notificazione, e così a riconoscere, in relazione ai successivi gradi del giudizio, l'automatica efficacia dell'evento morte o della perdita o dell'acquisto della capacità della parte costituita nel precedente grado, appare evidente che l'interpretazione delle altre norme coinvolte non può non essere influenzata da tale impostazione.

In questa prospettiva la disposizione di cui all'art. 328, comma 2, c.p.c., che nell'offrire alla parte la facoltà di rinnovare la notifica della sentenza collettivamente e impersonalmente agli eredi segue immediatamente la prescrizione di cui al comma 1 di rinnovo della notifica, ai fini del decorso del termine breve, al soggetto divenuto legittimato, va chiaramente intesa come attributiva di una facilitazione per l'impugnante, attraverso la possibilità di esimersi dalla ricerca ed identificazione dei singoli eredi, e certamente non consente che detta notificazione sia effettuata alla parte defunta o divenuta incapace.

Analogamente, il disposto del primo comma dell'art. 286 c.p.c., il quale, sotto l'imprecisa rubrica notificazione nel caso d'interruzione, sembra rimettere alla libera scelta della parte la possibilità di far decorrere il termine breve da una notifica della sentenza al soggetto non più legittimato, deve essere inteso nell'unico senso compatibile con la prescrizione posta dall'art. 328 c.p.c. in ordine alla rinnovazione della notifica, ossia nel senso che l'alternativa in esso offerta al notificante va riferita unicamente alla possibilità di notificare la sentenza, nel caso di morte, agli eredi singolarmente e personalmente nel loro domicilio, oppure agli stessi eredi collettivamente ed impersonalmente nell'ultimo domicilio del defunto. È peraltro evidente che la diversa lettura che il mero dato testuale parrebbe autorizzare finirebbe per rimettere alla volontà del notificante la scelta di attribuire rilevanza all'evento e si porrebbe in contrasto con il principio che riconosce soltanto al procuratore della parte cui l'evento stesso si riferisce il potere di decidere se provocare o meno l'interruzione del processo, senza possibilità che tale diritto potestativo sia conferito ad altre parti o al giudice.

Ed ancora, il comma 2 dell'art. 330 c.p.c., il quale prevede che l'impugnazione può essere notificata agli eredi della parte defunta dopo la notificazione della sentenza presso il procuratore costituito per la parte stessa nel precedente grado, esprime anch'esso la possibilità per l'impugnante di notificare nelle due forme possibili agli eredi, personalmente e singolarmente o impersonalmente e collettivamente, nei luoghi sopra menzionati, così conferendo effetto ultrattivo alla sola dichiarazione di residenza o alla elezione di domicilio, ed avendo quindi riguardo unicamente ai luoghi in cui la notifica della impugnazione può avvenire - come è peraltro agevolmente desumibile dalla relativa rubrica - e non alla persona del destinatario di essa.

Esigenze di coerenza sistematica impongono di ritenere che il principio generale innanzi richiamato, secondo il quale la legittimazione a compiere e ricevere gli atti dei giudizio di impugnazione resta influenzata dalla nuova situazione soggettiva di una delle parti, valga non solo nel caso di evento verificatosi dopo la discussione, ma anche nell'ipotesi di evento accaduto nella fase attiva del processo e non dichiarato né notificato, ponendosi in detta ipotesi il silenzio del procuratore quale fatto idoneo a spostare nel tempo la rilevanza di quell'evento che, rimasto nascosto per tutto il corso dei giudizio di primo grado dalla mancata dichiarazione o notificazione, riacquista alle soglie dell'appello la rilevanza propria della morte o di altro evento prima della costituzione in giudizio.

Ed invero, una volta assunto l'art. 328 c.p.c. come unica fonte normativa della legittimazione ad impugnare ed a ricevere l'impugnazione, appare evidente che tale principio resterebbe totalmente negato ove si ritenesse la perdurante legittimazione attiva e passiva della parte colpita dall'evento interruttivo non dichiarato né notificato, assumendo la scelta negativa del procuratore come fatto idoneo ad escludere per sempre la rilevanza ed efficacia di esso ed illegittimamente proiettando oltre i precisi limiti previsti nei primi due commi dell'art. 300 c.p.c. il principio di non automaticità della interruzione del processo.

Va pertanto riaffermata ed accentuata una lettura dell'art. 328 c.p.c. volta a cogliere la volontà del legislatore di adeguare il processo di impugnazione alle variazioni intervenute nelle posizioni delle parti, sia ai fini della notifica della sentenza che dell'impugnazione, ed operante tanto nel caso di evento verificatosi dopo la sentenza, che in quello di evento intervenuto durante la fase attiva e non dichiarato né notificato, con piena parificazione degli effetti delle due fattispecie.

In tale ricostruzione sistematica non sembra esservi spazio per opzioni interpretative dirette a subordinare il dovere di indirizzare l'impugnazione al nuovo soggetto alla avvenuta conoscenza o alla conoscibilità dell'evento. E tuttavia non può omettersi di considerare che la scelta ermeneutica adottata, se riconosce piena tutela alla parte legittimata a proseguire il giudizio, non ne riserva in pari misura all'altra parte incolpevolmente ignara dell'evento che ha colpito il suo antagonista, tenuto soprattutto conto che il meccanismo di proroga del termine annuale non elimina del tutto il rischio che essa non venga a conoscenza dell'evento stesso, che può verificarsi anche nella imminenza della scadenza del termine pur prorogato: e sono stati appunto i ricorrenti dubbi di incostituzionalità, sotto opposti profili, suscitati dalle varie opzioni interpretative, che hanno ispirato il filone giurisprudenziale intermedio in precedenza richiamato, incline ad attribuire rilevanza alla buona fede del notificante ed a ravvisare l'ammissibilità dell'atto di impugnazione notificato a soggetto non più legittimato in ogni caso in cui la parte impugnante sia stata senza colpa all'oscuro dell'evento che ha interessato la controparte.

Sotteso a tale impostazione è il principio, reiteratamente richiamato nella giurisprudenza costituzionale, che il diritto di difesa ha un contenuto di pienezza correlato al suo rapporto di necessità con l'esercizio della tutela giurisdizionale, così da ricomprendere nel proprio ambito anche il diritto di essere informato delle situazioni di fatto, oggettive o soggettive, che condizionano il concreto esercizio della attività difensiva, e che pertanto è ravvisabile una violazione dell'art. 24 Cost. anche nel caso di ignoranza di condizioni di fatto cui la legge ricollega o subordina l'esercizio del diritto, sempre che non sussistesse un onere della parte di acquisirne conoscenza o che non si trattasse di circostanze non conoscibili con l'ordinaria diligenza.

Va d'altro canto considerato che la Corte costituzionale con l'ordinanza 27/2000, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 163, comma 3, n. 2, 164, comma 2 (nel testo anteriore alla riforma del 1990) e 359 c.p.c., sollevata con riferimento all'art. 24 Cost. - laddove le disposizioni impugnate non consentirebbero rimedio all'errore incolpevole dell'appellante che abbia ritenuto ancora in vita l'appellato al momento della notifica dell'impugnazione e non prevedono che la costituzione in giudizio degli eredi determini la sanatoria ex tunc della nullità della citazione in appello notificata alla parte deceduta dopo la chiusura della discussione nel giudizio di primo grado - rilevato che non era possibile operare la reductio ad legitimitatem delle norme impugnate in termini univoci e costituzionalmente obbligati, essendo astrattamente configurabili più itinera, tutti egualmente idonei a porre rimedio alla dedotta incostituzionalità, ha indicato come diritto vivente l'orientamento che ritiene valida l'impugnazione proposta nei confronti della parte non più esistente, allorché la controparte abbia senza colpa ignorato l'evento.

E poiché, come ha ricordato la Corte costituzionale nella stessa pronuncia, è compito dell'interprete attribuire alla norma un significato che sia conforme alla Costituzione e che in ragione di tale conformità impedisca il verificarsi dell'effetto lesivo dei diritti della parte incorsa in errore incolpevole, ed assumere il precetto costituzionale, prima ancora che come parametro di legittimità delle fonti ordinarie, come fonte diretta di regolamentazione dei rapporti giuridici, deve ritenersi che limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995, ormai in via di esaurimento, si imponga, quale unica interpretazione compatibile con l'art. 24 Cost., quella che valorizza la non conoscibilità dell'evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che ha proposto l'impugnazione.

Tale lettura è resa necessaria dal rilievo che in relazione a detti processi, in presenza di un vizio che non attiene alla notificazione, ma alla individuazione della parte nei cui confronti il potere impugnatorio deve essere esercitato, il sistema non prevede una possibilità di rinnovazione dell'atto e sottopone la parte alle preclusioni derivanti dall'aver indirizzato in modo errato l'atto di impugnazione, a differenza di quelli disciplinati dalla novella del 1990, in ordine ai quali l'art. 164 c.p.c. predispone uno strumento per sanare, con efficacia ex tunc il vizio della citazione (e dell'impugnazione ), se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nei numeri 1 e 2 dell'art. 163 c.p.c., così da offrire un congruo margine di tutela al soggetto incolpevole.

Va tuttavia rilevato, per quanto specificamente attiene all'ipotesi, che in questa sede rileva, di raggiungimento della maggiore età nel corso del processo, che in relazione ad un evento siffatto un problema di conoscibilità e di buona fede e quindi di tutela della parte incolpevole, non ha ragione di essere posto, atteso che lo stato di incapacità per minore età è naturaliter temporaneo: come appare evidente la maggiore età non costituisce un evento concretamente imprevedibile e sottratto a forme di pubblicità, ma un accadimento inevitabile nell'an ed agevolmente riscontrabile nel quando, talora direttamente desumibile dalla durata stessa del processo, così che il processo nel quale è parte un minore deve considerarsi di per sé suscettibile di subire modifiche in ordine alla rappresentanza in giudizio.

In applicazione dei principi che precedono, ritenuto che il giudizio in esame, promosso nel 1990, è regolato dalla disciplina anteriore alla novella, che l'atto di appello è stato erroneamente notificato ai genitori di Roberto D.C., divenuto maggiorenne nelle more, e che la sentenza impugnata è stata emessa nei confronti di detti genitori, in accoglimento del primo e secondo motivo del ricorso dal medesimo proposto la sentenza stessa deve essere cassata senza rinvio in parte qua, in quanto il processo nei confronti dei predetto non poteva essere proseguito.

Il terzo e quarto motivo dello stesso ricorso restano logicamente assorbiti.

Gli atti vanno quindi restituiti alla terza sezione per l'esame del ricorso proposto da A.D.C. e di quello incidentale proposto dagli eredi N.

P.Q.M.

La Corte di cassazione, a sezioni unite, accoglie il primo e secondo motivo del ricorso proposto da Roberto D.C., dichiara assorbiti gli altri motivi. Cassa senza rinvio in parte qua la sentenza impugnata perché il processo nei confronti del predetto non poteva essere proseguito. Rimette gli atti alla terza sezione civile per l'esame del ricorso proposto da A.D.C. e di quello incidentale proposto dagli eredi N.