Corte di cassazione
Sezioni unite civili
Sentenza 21 giugno 2005, n. 13289

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza Forense ha respinto la domanda di pensione di vecchiaia presentata dall'avv. A.L. ritenendo convalidabili, in base alla documentazione prodotta, solo 26 anni di iscrizione alla Cassa, in assenza di prova dei requisito della continuità dell'esercizio della professione durante gli anni dal 1976 al 1982, per il 1987 e il 1988.

Su ricorso dell'avv. L. il Tribunale di Genova ha condannato la Cassa a corrispondere all'appellante la pensione di vecchiaia con decorrenza 1° novembre 1994. La Corte di appello di Genova con la sentenza oggi denunciata ha confermato tale decisione, affermando, in relazione al disposto dell'art. 3 della l. 319/1975 (modificato dall'art. 22 della l. 20 settembre 1980, n. 576) che la sussistenza dei requisiti del diritto a pensione, sotto il profilo della continuità dell'esercizio professionale, poteva essere verificata solo per il periodo del quinquennio considerato da tale norma; essendo stata presentata domanda di pensione nell'ottobre del 1994, tale periodo riguardava solo l'arco di tempo successivo all'ottobre del 1989.

Avverso questa sentenza la Cassa propone ricorso per cassazione con unico motivo. L'avv. A.L. resiste con controricorso e ricorso incidentale. Sono state depositate memorie.

La causa è stata assegnata a queste Sezioni Unite per l'esame della questione, oggetto di un contrasto di giurisprudenza, relativa alla prova dell'esercizio continuativo della professione forense (richiesta per la concessione della pensione di vecchiaia agli iscritti alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense) in relazione alle disposizioni dettate in tema di revisione degli iscritti dall'art. 3 della l. 22 luglio 1975, n. 319 e successive modifiche.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I ricorsi proposti contro la stessa sentenza devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 c.p.c.

2. Con l'unico motivo del ricorso principale si denuncia la violazione degli artt. 22 l. 20 settembre 1980, n. 576, 2 l. 22 luglio 1975, n. 319, 1 l. 25 febbraio 1963, n. 289, 2 l. 8 gennaio 1952, n. 6; degli artt. 10 l. 22 luglio 1975, n. 319, 29 l. 20 settembre 1980, n. 576; degli artt. 3 l. 22 luglio 1975, n. 319, 22 l. 20 settembre 1980, n. 576; nonché degli artt. 2697 e 2730 c.c.

La parte, dopo aver richiamato le disposizioni normative che nel sistema della previdenza forense richiedono ai fini della concessione di pensione di vecchiaia l'esercizio continuativo della professione per il numero minimo di anni prescritto, e l'evoluzione nel tempo dei criteri fissati per la prova di tale requisito, afferma che lo strumento della revisione fu istituito dall'art. 3 della l. n. 319/1975 non per favorire la dimostrazione della sussistenza di tale presupposto, ma nell'esclusivo interesse della Cassa di Previdenza, al fine di consentire alla stessa di percepire i contributi soggettivi degli iscritti oltre i minimi, e di verificare il numero degli iscritti aventi diritto alle prestazioni previdenziali; argomenti in tal senso vengono tratti, oltre che dal riferimento della prima revisione prevista dalla legge del 1975 al decennio antecedente, dalla modifica della legge del 1980 che ha reso facoltativa la revisione, con la conseguenza che il mancato esercizio di tale facoltà non può precludere alla Cassa l'accertamento dei presupposto del diritto alla prestazione previdenziale.

Si sostiene dunque che, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice dell'appello, il fatto che la revisione non sia stata disposta non incide sulla prova dell'esercizio continuativo della professione, che resta e carico dell'iscritto, il quale non può neppure beneficiare di presunzioni, non previste da alcuna norma di legge.

2. Con l'unico motivo del ricorso incidentale l'avv. L. ripropone, mediante la denuncia di nullità della sentenza o del procedimento, per violazione degli artt. 342 e 434 c.p.c., l'eccezione di inammissibilità, dell'appello proposto avverso la sentenza di primo grado; sostiene che tale impugnazione risulta priva di specifiche argomentazioni dirette a confutare le ragioni poste a fondamento della decisione impugnata, in quanto la controparte si è limitata a trascrivere le considerazioni svolte nella memoria difensiva di primo grado.

Il motivo, che deve essere esaminato preliminarmente, appare infondato. Infatti l'appello proposto dalla Cassa avverso la decisione del Tribunale non si limita ad un generico richiamo delle difese svolte in primo grado, ma indica le ragioni concrete del riesame domandato al giudice del gravame mediante la confutazione dell'interpretazione della norma dell'art. 3 della l. 319/1975, posta a base della sentenza impugnata.

3.1. Il ricorso principale non merita accoglimento.

L'esame della censura rende necessaria un'analisi delle norme che regolano, nel sistema della previdenza forense, i requisiti per la pensione di vecchiaia degli avvocati.

L'art. 2 della l. 20 settembre 1980, n. 576 richiede per l'attribuzione di tale prestazione il compimento di almeno 65 anni «dopo almeno 30 anni di effettiva iscrizione e contribuzione alla cassa». Per l'art. 22 della stessa legge, l'iscrizione alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense è obbligatoria per tutti gli avvocati che esercitano la libera professione con carattere di continuità «ai sensi dello articolo 2 della l. 22 luglio 1975, n. 319».

La norma così richiamata stabiliva che «il comitato dei delegati della Cassa, sentito il Consiglio Nazionale Forense, determinerà, entro sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge, i criteri per accertare quali siano gli iscritti alla Cassa stessa che, in conformità a quanto disposto dall'articolo 2 della legge 8 gennaio 1952, n. 6, sostituito dall'articolo 1 della legge 25 febbraio 1963, n. 289, esercitino la libera professione forense con carattere di continuità».

Il citato art. 22 della l. n. 576/1980 ha successivamente disposto che «il Comitato dei delegati provvede ogni cinque anni, e per la prima volta nel secondo anno successivo all'entrata in vigore della presente legge, ad adeguare, se necessario, i criteri per accertare l'esercizio della libera professione».

Ai fini dell'accertamento dell'esercizio continuativo della professione si pone la questione dell'interpretazione dell'art. 3 della l. 22 luglio 1975, n. 319, nel testo modificato dall'art. 22 della l. n. 576/1980, secondo cui «la Giunta esecutiva della Cassa, sulla scorta dei criteri fissati dal comitato dei delegati, può provvedere periodicamente alla revisione degli iscritti con riferimento alla continuità dell'esercizio professionale nel quinquennio, rendendo inefficaci agli effetti dell'anzianità di iscrizione i periodi per i quali, entro il medesimo termine, detta continuità non risulti dimostrata».

Il testo originario della norma stabiliva invece che «la Giunta esecutiva della Cassa, sulla scorta dei criteri adottati dal comitato dei delegati, provvede immediatamente, sentiti gli ordini competenti, alla revisione degli iscritti con riferimento alla continuità dell'esercizio della professione nell'ultimo decennio, e, successivamente, a revisioni quinquennali, sospendendo dall'iscrizione, per il periodo corrispondente di anni, coloro che non provino di aver svolto la libera professione con carattere di continuità».

3.2. Sul tema si sono registrati diversi orientamenti giurisprudenziali, a partire dalla decisione n. 12667 del 15 dicembre 1997 di questa Corte. Non riguarda invece direttamente il problema oggi in esame la questione (affrontata da Cass. 8 agosto 1987, n. 6807, 15 febbraio 1989, n. 911, 24 ottobre 1996, n. 9300, 16 dicembre 2003, n. 19265) dell'operatività delle regole dettate della l. n. 319/1975 per la revisione degli iscritti alla cassa con riferimento al decennio anteriore all'entrata in vigore della stessa disciplina.

La citata sentenza n. 12667/1997 ha enunciato il principio secondo cui il requisito della effettiva iscrizione di cui all'art. 2 della l. n. 576/1980 postula la continuità dell'esercizio della professione forense quale elemento costitutivo dei diritto a pensione; la Cassa ha il potere-dovere di esercitare un costante controllo sull'effettività dell'iscrizione durante l'intero periodo dell'anzianità contributiva ed assicurativa; peraltro, ove tale potere non sia mai stato esercitato, mediante lo strumento della revisione, fino all'epoca del pensionamento, o se la Cassa, pur avendo esercitato tale potere, non abbia contestato la sussistenza del requisito, oppure l'interessato abbia dimostrato l'infondatezza della contestazione, è ragionevole presumere - secondo la pronuncia richiamata - che all'atto della richiesta di pensione il requisito della continuità sussista.

Cass. 8 agosto 1998, n. 7803, con riguardo ad una fattispecie in cui l'iscritto non aveva dimostrato la continuità per alcuni anni dell'esercizio della professione in relazione ai criteri fissati dal comitato dei delegati della Cassa ai sensi del citato art. 2 della l. n. 319/1975, ha ritenuto infondato l'assunto secondo cui l'accettazione da parte della Cassa dei contributi versati dall'assicurato non poteva valere a dimostrare la regolarità del rapporto assicurativo con conseguente diritto alla prestazione; si tratta infatti, secondo la decisione citata, di diritti di cui la Cassa non può disporre. D'altro canto, la legge non pone alcun obbligo alla Cassa di effettuare tempestivi rilievi avverso le dichiarazioni e i versamenti annuali che non siano conformi alla legge, posto che l'art. 3 della legge del 1975, nel testo modificato dalla legge del 1980, prevede non un obbligo, ma solo una facoltà di procedere alla revisione degli iscritti, sicché dal mancato esercizio di tale facoltà non può discendere alcun effetto.

Una diversa impostazione è seguita da Cass. 20 settembre 1999, n. 10164, secondo cui il potere-dovere attribuito nell'art. 22 l. 20 settembre 1980, n. 576 alla Giunta esecutiva della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore degli avvocati e procuratori di verificare periodicamente la sussistenza del requisito dell'esercizio da parte degli iscritti alla libera professione con carattere di continuità è limitato, come periodo di riferimento, al quinquennio precedente la verifica stessa e non può invece essere esercitato in ogni tempo. Consegue che soltanto i contributi che cadono nel quinquennio precedente la data della revisione (facoltativa od obbligatoria) possono essere resi inefficaci per mancanza del requisito della continuità dell'esercizio professionale.

Cass. 6 marzo 2002, n. 3211 ha affermato che la effettiva iscrizione per almeno trenta anni alla Cassa nazionale di previdenza forense, richiesta dall'art. 2 della l. 20 settembre 1980, n. 576, deve intendersi come iscrizione corrispondente ad una reale situazione di protratto esercizio dell'attività professionale, a prescindere dalla percezione di un reddito professionale minimo ovvero da altri analoghi requisiti fissati dal comitato dei delegati della detta Cassa ai sensi dell'art. 2 della l. 22 luglio 1975, n. 319, che sono influenti solo ai fini della obbligatorietà dell'iscrizione; ne consegue che resta irrilevante, ai fini del diritto alla pensione, l'accertamento - successivo alla maturazione dell'anzianità utile per tale diritto - della insussistenza dei requisiti reddituali o assimilati, sempre che l'interessato abbia regolarmente versato i contributi dovuti ed abbia esattamente adempiuto all'obbligo, previsto dagli artt. 17 e 23 della stessa l. n. 576/1980, di comunicare l'ammontare dei propri redditi professionali.

3.3. Nel quadro normativo sopra delineato, il presupposto per l'attribuzione della pensione di vecchiaia, rappresentato dal periodo minimo di «effettiva iscrizione e contribuzione», è integrato dall'esercizio continuativo della professione forense, che a sua volta comporta l'iscrizione obbligatoria alla Cassa (art. 22 l. 576/1980 cit.). La mancanza di questo elemento incide sulla effettività dell'iscrizione e quindi sulla correlativa contribuzione, rendendo inutile ai fini del conseguimento della prestazione il versamento dei contributi, che comporta solo il diritto al rimborso delle somme versate (art. 22, ultimo comma, l. 576/1986; cfr. Cass. 3 dicembre 1988, n. 6571, Cass. n. 3211/2002 cit.).

Tale presupposto rappresenta dunque un elemento della fattispecie costitutiva del diritto alla pensione, la prova del quale, secondo i principi generali, spetta a chi affermi il diritto alla prestazione. La disciplina in esame detta peraltro specifiche regole in materia, posto che mentre prima dell'entrata in vigore della legge del 1975, in assenza di prescrizioni normative, i criteri per la verifica dell'esercizio continuativo della professione erano stabiliti - come ricorda la difesa delle ricorrente - solo da una prassi della Giunta esecutiva della Cassa, la legge ricordata ha espressamente affidato la determinazione di tali criteri a periodici provvedimenti del Comitato dei delegati.

In base a tale normativa, le prime delibere del Comitato hanno richiesto per la prova dell'elemento in questione l'attestazione di un reddito IRPEF o di un volume di affari di una determinata entità, o alternativamente la certificazione di un certo numero di procedimenti curati dal professionista; con il 1983 è stata richiesta esclusivamente l'attestazione di un reddito IRPEF e di un volume d'affari IVA, mentre per il 1983 e per il 1984 è stata prevista, in caso di livelli inferiori di reddito o di affari, la possibilità di una prova integrativa mediante la certificazione di affari giudiziali. Dal 1985 questa possibilità integrativa è stata eliminata.

D'altro canto, il sistema della l. n. 576/1980 pone a carico dell'interessato, con la disposizione dell'art. 17, l'obbligo di comunicare annualmente alla Cassa l'ammontare del reddito professionale dichiarato ai fini dell'IRPEF per l'anno precedente, nonché il volume complessivo di affari dichiarato ai fini dell'IVA; nel caso di maturazione del diritto a pensione prima della scadenza della dichiarazione dei redditi è necessaria una dichiarazione integrativa. Lo stesso testo normativo prevede anche all'art. 23, per la fase di prima applicazione della legge, l'obbligo di una specifica comunicazione dell'ammontare dei redditi e del volume di affari per gli anni a partire dal 1975.

Conseguentemente, l'accertamento della continuità dell'esercizio professionale (che rappresenta un requisito legale per il diritto alla prestazione) risulta affidato ad una verifica da compiere sulla base di parametri stabiliti da determinazioni del comitato dei delegati della Cassa - alla quale la legge riconosce a tal fine, come osservato da Cass. n. 3211/2002 cit., una potestà autoregolamentare - e in relazione alle comunicazioni obbligatorie periodiche effettuate dagli interessati, che consentono per ogni anno il controllo da parte della Cassa.

In questo quadro si inserisce la particolare disciplina della «revisione degli iscritti», affidata all'iniziativa della Giunta esecutiva della Cassa, ma limitata temporalmente quanto al periodo per il quale può essere verificata, sulla scorta dei criteri adottati dal comitato dei delegati, la continuità dell'esercizio professionale.

Posto che tale verifica attiene ad un presupposto specifico della iscrizione obbligatoria, definito secondo parametri posti periodicamente dalla normativa interna della Cassa, il limite temporale della revisione stabilisce anche l'ambito entro il quale l'accertamento può essere compiuto, una volta che sia stato assolto l'obbligo di comunicazione dei dati da parte dell'interessato ai sensi degli artt. 17 e 23 della l. n. 576/1980; con la conseguenza che il mancato esercizio della facoltà prevista dall'art. 3 della l. n. 319/1975, nel testo modificato dalla stessa legge del 1980, preclude la possibilità di contestare la sussistenza del requisito della continuità dell'esercizio dell'attività professionale per l'iscritto in possesso dei presupposti di età e anzianità contributiva, che abbia adempiuto al suddetto obbligo di comunicazione periodica.

La soluzione qui prospettata trova una conferma, e non una smentita, nell'argomento sviluppato dalla difesa della Cassa a sostegno del proprio assunto, sul rilievo della inesistenza di limiti temporali all'accertamento di situazioni di incompatibilità correlate allo svolgimento dell'attività professionale, che ai sensi dell'art. 2, comma 3, della legge del 1975 precludono sia l'iscrizione alla Cassa, sia la valutazione dei periodi corrispondenti, al fini della attribuzione di prestazioni previdenziali. Infatti, proprio l'estraneità di questa fattispecie all'ambito della revisione degli iscritti dimostra che questa attiene esclusivamente alla verifica di un presupposto dell'effettività dell'iscrizione, normativamente circoscritta da un limite temporale e correlata ai parametri fissati dalla ricordata normativa interna.

La possibilità di contestare senza limiti di tempo la sussistenza del presupposto in questione non trova poi un riscontro nelle previsioni dell'art. 10 della l. 319/1975 e dell'art. 29, comma quarto, della l. n. 576/1980, che secondo la ricorrente principale indicano nell'epoca dei pensionamento il momento in cui deve essere provato l'esercizio continuativo.

Secondo la prima disposizione citata «la concessione delle pensioni di anzianità, invalidità ed indiretta in ogni caso è subordinata alla dimostrazione che l'iscritto abbia esercitato con carattere di continuità la libera professione forense rispettivamente per 25, 10 e 5 anni». A parte la questione della compatibilità della disciplina dettato per la preesistente pensione di anzianità con il nuovo istituto della pensione di vecchiaia (con requisiti differenziati), nel sistema della l. n. 576/1980 l'accertamento del requisito della continuità risulta soggetto a regole diverse, specie per quanto attiene alle comunicazioni obbligatorie dell'iscritto di cui agli artt. 17 e 23.

La seconda norma richiamata ha previsto la possibilità, entro un anno dall'entrata in vigore della l. n. 576/1980, di ottenere l'iscrizione retroattiva e la retrodatazione degli effetti della iscrizione con domanda accompagnata dalla comunicazione prevista dall'art. 17. Il quarto comma dell'art. 29 stabilisce che per conseguire la pensione gli interessati «devono dimostrare il possesso dei requisiti richiesti dall'articolo 2 della legge 22 luglio 1975, n. 319, dall'articolo 1 della legge 25 febbraio 1963, n. 289 e dall'articolo 2 della legge 8 gennaio 1952, n. 6, per i rispettivi periodi di efficacia». Neppure questa disposizione, in quanto riferibile al requisito dell'esercizio continuativo della professione, fornisce argomenti a sostegno dell'assunto della parte, risultando diretta a regolare una fattispecie particolare in cui non può evidentemente operare il sistema delle comunicazioni periodiche obbligatorie.

Si deve in conclusione affermare che in relazione alla domanda di pensione di vecchiaia presentata dall'iscritto la sussistenza del requisito della continuità dell'esercizio della professione non può essere contestata dalla Cassa per i periodi anteriori al quinquennio precedente la suddetta domanda, quando non sia stata esercitata la facoltà di revisione prevista dal vigente testo dell'art. 3 della l. 319/1975 e l'interessato abbia adempiuto agli obblighi di comunicazione di cui agli artt. 17 e 23 della l. n. 576/1980.

Correttamente, quindi, la sentenza impugnata ha escluso nel caso di specie, in relazione alla domanda di pensione presentata nel 1994, la possibilità di contestare l'efficacia, ai fini dell'anzianità contributiva, di periodi relativi agli anni dal 1976 al 1982 e successivi fino al 1988.

4. Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.