Tribunale di Roma
Sezione XIII civile
Sentenza 4 aprile 2005
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto di citazione regolarmente notificato, A.T., G.A. ed A.A. convenivano dinanzi a questo Tribunale l'E.T.I. Spa.
Gli attori esponevano in fatto che:
- erano, rispettivamente, moglie e figli del sig. L.A., deceduto il 28 ottobre 2001 a causa di un tumore al polmone;
- il compianto L.A. era nato nel 1938, ed aveva iniziato a fumare all'età di 18 anni;
- aveva sempre fumato sigarette marca "MS", commercializzate dall'ente convenuto e dai suoi danti causa;
- il tumore che aveva causato la morte del sig. L.A. era stato a sua volta causato dal tabagismo.
Allegavano, poi, in iure che della morte del sig. L.A. doveva rispondere l'ente convenuto, sotto due profili:
a) sia ex art. 2050 c.c.;
b) in ogni caso, per colpa aquiliana ex art. 2043 c.c., per avere omesso sino al 1991 di informare i consumatori dei pericoli connessi all'uso del tabacco.
L'E.T.I. Spa si costituiva regolarmente, eccependo:
- il proprio difetto di legittimazione passiva, per essere stata costituita soltanto nel 1998, mentre i fatti colposi ad essa ascritti dagli attori (cioè l'omessa informazione) si erano protratti fino al 1990;
- la prescrizione dei diritti azionati dagli attori iure haereditatis;
- nel merito l'infondatezza della domanda.
Con le note ex art. 180, comma 2, c.p.c., l'E.T.I. chiedeva ed otteneva, previa rimessione in termini ex art. 184-bis c.p.c., di essere autorizzata a chiamare in causa il Ministero dell'economia e l'Azienda Monopoli di Stato, ai quali chiedeva di essere tenuta indenne in caso di accoglimento della domanda attorea.
I due enti chiamati in causa si costituivano regolarmente, eccependo anch'essi il proprio difetto di legittimazione passiva e, nel merito, l'infondatezza della domanda principale.
Nel corso dell'istruzione venivano acquisiti documenti.
Esaurita l'istruzione e precisate le conclusioni, la causa è stata trattenuta in decisione all'udienza del 22 novembre 2004.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. L'eccezione di difetto di legittimazione attiva degli attori va rigettata, in quanto inammissibilmente sollevata soltanto in comparsa conclusionale.
Quanto, poi, al rilievo secondo cui la questione sarebbe rilevabile ex officio, giova al riguardo ricordare che, come ripetutamente statuito dalla Suprema Corte, dal fatto che l'art. 167, comma 1, c.p.c., imponga al convenuto di prendere posizione in comparsa di risposta sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda, si desume l'esistenza d'un principio generale secondo cui la mancata contestazione delle avverse allegazioni deve fare ritenere provato il fatto non contestato, senza nessuna possibilità per il giudice di andare in contrario avviso (Cassazione 761/2002; Cassazione 10031/2004, in "D&G", n. 26/2004, p. 33). Pertanto, essendo tardiva la contestazione sulla legittimazione attiva degli attori, quest'ultima deve ritenersi ammessa.
2. L'eccezione di difetto di legittimazione passiva (recte, di non titolarità del lato passivo dell'obbligazione risarcitoria) sollevata dall'E.T.I. è infondata.
Gli attori allegano, a fondamento della propria pretesa, l'illegittimità di una condotta (omessa informazione sulla pericolosità dei prodotti da fumo) tenuta sino al 1991.
La condotta illecita, secondo la prospettazione attorea, è stata dunque tenuta dall'Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato.
L'E.T.I. è stata costituita con d.lgs. 283/1998, il cui art. 3, comma 1, ha disposto che "l'Ente è titolare dei rapporti attivi e passivi, nonché dei diritti e dei beni afferenti le attività produttive e commerciali già attribuite all'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato".
Dalla sintassi di tale norma, cristallina ed inequivoca, emerge che:
a) l'E.T.I. è ex lege "titolare di rapporti passivi", cioè debitrice;
b) tali debiti sono quelli "afferenti le attività produttive e commerciali" dell'Azienda Monopoli di Stato, vale a dire le obbligazioni scaturite dall'esercizio dell'attività di produzione e vendita dei prodotti da fumo. E non disponendo la legge alcuna ulteriore distinzione, sarebbe vano pretendere di separare i debiti di natura negoziale da quelli di natura aquiliana;
c) infine, quel che più rileva, i suddetti debiti gravanti sull'E.T.I. sono quelli relativi alle attività "già" attribuite all'Azienda Monopoli. L'uso dell'avverbio "già" rende palese che il legislatore ha previsto l'attribuzione all'E.T.I. dei debiti esistenti e gravanti sull'Azienda Monopoli al momento della costituzione dell'E.T.I., e dunque una ipotesi di accollo liberatorio ex lege di debiti pregressi. Si consideri che, diversamente argomentando, la norma in esame sarebbe del tutto inutile, essendo ovvio che i debiti contratti nell'esercizio dell'attività di produzione e vendita dei prodotti da fumo, a partire dal momento di costituzione dell'E.T.I., già avrebbero gravato naturaliter su quest'ultima, senza bisogno di una norma che lo dicesse espressamente. E poiché tra due interpretazioni contrastanti deve essere preferita quella in grado di conferire senso ed utilità alla norma piuttosto che quella in grado di annullarne il significato, deve concludersi che di tutti i debiti astrattamente scaturenti dall'attività negoziale od extracontrattuale dell'Azienda Monopoli di Stato è tenuta a rispondere l'E.T.I., ai sensi del ricordato art. 3 d.lgs. 283/1998.
2.1. Irrilevanti sono, al riguardo, le allegazioni svolte al riguardo da parte convenuta.
Per quanto attiene al preteso "rilievo officioso" della sussistenza della legittimazione passiva dell'E.T.I. ex art. 3 d.lgs. 283/1998, basterà ricordare che esso costituisce mera applicazione del principio iura novit curia.
Per quanto attiene all'allegazione secondo cui l'E.T.I. non potrebbe comunque essere chiamata a rispondere del fatto illecito commesso dall'Azienda Monopoli, perché nel caso di specie non si sarebbe verificata una successione in universum ius dell'E.T.I. all'Azienda Monopoli, essa non è decisiva.
Quand'anche, infatti, si volesse escludere nella specie un fenomeno successorio (affermazione, questa, in astratto condivisibile, posto che l'Azienda Monopoli non è stata soppressa: cfr. per l'affermazione di un principio analogo, Cassazione, Sezione prima, 7258/2001, in Foro it., 2003, I, 56), v'è da osservare che il trasferimento dei debiti pregressi (anche da fatto illecito) da uno ad altro soggetto ben può essere disposto dal legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalità, anche quando sia mancata una successione vera e propria. E poiché, come si è visto, nel caso di specie il trasferimento discende dall'unica interpretazione possibile dell'art. 3 d.lgs. 283/1998, nulla rileva che nel caso di specie non possa stricti iuris parlarsi di un vero e proprio fenomeno successorio, in quanto comunque è configurabile un accollo liberatorio disposto per legge. V'è solo da aggiungere, a quanto precede, come le conclusioni appena raggiunte non sono infirmate dal precedente invocato dalla società convenuta (rappresentato da Cassazione, Sezione seconda, 7381/2001, in Foro it. Rep. 2001, Danni civili, n. 121).
In tale sentenza, infatti, non solo il principio invocato dall'E.T.I. costituisce un mero obiter, ancorché inopinatamente massimato ed elevato così apparentemente a regula iuris della decisione, ma - quel che più rileva - il caso deciso dalla Suprema Corte aveva ad oggetto una ordinaria ipotesi di trasferimento d'azienda, soggetta alla disciplina di cui all'art. 2560 c.c., e non già un trasferimento di debiti e crediti disposto, come invece è avvenuto nel caso dell'E.T.I., per legge.
3. Nel merito, deve rilevarsi che la fattispecie concreta allegata dagli attori è stata più volte decisa da questo Tribunale, sempre in senso reiettivo della pretesa (Tribunale Roma, 11 febbraio 2000, in Corriere giur., 2000, 1639; Tribunale Roma, 4 aprile 1997, in Danno e resp., 1997, 750).
Da tali decisioni non v'è motivo di discostarsi, per le ragioni che seguono.
4. Deve, in primo luogo, escludersi che nel caso di specie gli attori possano invocare la presunzione di cui all'art. 2050 c.c.
Ciò per tre motivi indipendenti.
4.1. Il primo motivo è che l'ipotesi prevista dall'art. 2050 c.c. (responsabilità per l'esercizio di attività pericolosa) non configura una fattispecie di responsabilità oggettiva, ma una semplice presunzione iuris tantum di colpa (ex plurimis, Cassazione, Sezione terza, 10382/2002). Di conseguenza, essa esonera la vittima del danno dalla prova della colpa o del dolo del danneggiante, ma non da quella del nesso causale tra l'attività pericolosa ed il danno patito (ex plurimis, Cassazione, Sezione terza, 4792/2001).
Nesso causale che nel caso di specie, come meglio si dirà più avanti, manca del tutto.
4.2. Il secondo è che comunque nel caso di specie non ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'art. 2050 c.c.
La norma in esame fa infatti riferimento alle "attività pericolose", e non già alle mere "condotte" pericolose: le prime ricorrono allorché l'attività presenti una notevole potenzialità di danno a terzi, mentre nulla rileva se un'attività, normalmente innocua, diventi pericolosa per la condotta di chi la esercita. Sicché, ai fini dell'art. 2050 c.c., non è rilevante una mera condotta soggettiva pericolosa, idonea a far sorgere la responsabilità soltanto secondo la regola dell'art. 2043 c.c. (Cassazione 15334/2004; Cassazione, Sezione seconda, 13530/1992).
Nel caso di specie, sono stati gli stessi attori ad allegare che il danno è stato causato dall'omessa informazione sui rischi del fumo: essi dunque ascrivono alla convenuta una condotta, e non una attività, pericolosa, con conseguenza inapplicabilità dell'art. 2050 c.c.
4.3. Il terzo motivo è che la produzione e la vendita di sigarette non può considerarsi attività pericolosa, nel senso indicato dall'art. 2050 c.c.
La norma appena ricordata indica due criteri in base ai quali valutare la natura pericolosa o meno dell'attività da cui è derivato il danno: la natura intrinseca di tale attività, o la qualità dei mezzi adoperati. La presunzione di cui all'articolo in esame si applica dunque sia alle attività oggettivamente pericolose, sia a quelle che, pur non essendo oggettivamente pericolose, possono diventarlo in conseguenza del particolare tipo di strumenti adottati dall'esercente. Secondo la Suprema Corte, costituiscono attività pericolose ai sensi dell'art. 2050 c.c. non solo quelle che tali sono qualificate dalla legge di pubblica sicurezza e da altre leggi speciali, ma anche quelle che per la loro stessa natura o per caratteristiche dei mezzi adoperati comportino una rilevante possibilità del verificarsi di un danno per la loro spiccata potenzialità offensiva, e lo stabilire se in concreto un'attività sia da considerare pericolosa costituisce compito del giudice di merito la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Cassazione, Sezione terza, 5341/1998).
Alla luce di tali criteri è agevole rilevare che la produzione e la vendita di sigarette:
a) non ha natura intrinsecamente pericolosa, in quanto il pericolo può derivare unicamente dall'uso smodato che di tali prodotti venga fatto;
b) non adopera mezzi pericolosi, in quanto i macchinari impiegati per il confezionamento e lo smercio non presentano alcuna particolarità o potenzialità dannosa.
Aggiungasi che la Suprema Corte ha espressamente escluso che la pericolosità di un'attività possa essere valutata con riferimento alla diffusione delle modalità con le quali viene comunemente esercitata. Una certa attività, pertanto, non può essere ritenuta "pericolosa" sol perché coloro che la praticano non adottano normalmente le cautele che sarebbero opportune, giacché in tal modo si assumerebbe a parametro valutativo non già l'attitudine dell'attività a recare danno, bensì il grado di diligenza comunemente riscontrabile (Cassazione, 7916/2004). Tale regula iuris si attaglia perfettamente al caso di specie, nel quale gli attori allegano che fonte di danno è stata non già l'attività della convenuta riguardata ex se, ma l'omissione di una adeguata e completa informazione sui pericoli del fumo.
5. Né la responsabilità dell'E.T.I. potrebbe essere invocata ex art. 2043 c.c.
Rispetto alla ricostruibilità di un illecito aquiliano dell'E.T.I., per omessa informazione del consumatore sui pericoli da fumo, manca innanzitutto nella specie un valido nesso causale. L'accertamento del nesso causale tra una condotta omissiva (quale quella ascritta dall'attore all'odierna convenuta) e l'evento di danno è retto dagli artt. 40 e 41 c.p., i quali pongono una regola (quella dell'equivalenza causale temperata) pervasiva dell'intero ordinamento (ex permultis, Cassazione, Sezione terza, 5962/2000, in Arch. circolaz., 2000, 840), e quindi applicabile anche in tema di illecito civile (rispetto al quale la norma di cui all'art. 1223 c.c., per contro, disciplina un ben diverso nesso causale, e cioè quello tra evento lesivo e conseguenze dannose: cfr., ex multis, Cassazione, Sezione terza, 16163/2001, in Foro it. Rep., 2001, Responsabilità civile, n. 162). Nell'interpretazione degli artt. 40 e 41 c.p., e con speciale riferimento all'ipotesi del delictum per omissionem commissum, la Suprema Corte ha di recente abbandonato il proprio tradizionale orientamento, secondo cui nel caso di omissione colposa, l'autore risponde del danno quante volte la condotta alternativa corretta avrebbe avuto "serie ed apprezzabili possibilità" di evitare il danno (in tal senso, ex multis, Cassazione, Sezione quarta, Minella; Cassazione, Sezione quarta, 5 ottobre 2000, in Riv. pen., 2001, 452; Cassazione, Sezione quarta, 1° ottobre 1999, in Dir. pen. e proc., 2001, 469).
Infatti le Sezioni unite penali del giudice di legittimità, componendo il contrasto medio tempore insorto in seno alle sezioni semplici, hanno abbandonato la vecchia nozione di "serie ed apprezzabili possibilità" di evitare l'evento, e sancito per contro l'obbligo di fare ricorso a diversi criteri logici di accertamento del nesso causale, che possono essere così riassunti:
a) per quanto attiene all'accertamento del nesso causale tra omissione e danno, resta valido il ricorso al "giudizio controfattuale", ossia a quella particolare astrazione consistente nell'ipotizzare quali sarebbero state le conseguenze della condotta alternativa corretta omessa dal responsabile;
b) per quanto attiene al grado di probabilità, in base al quale stabilire astrattamente se l'effettuazione della condotta omessa avrebbe evitato il danno, occorre avere riguardo non già alla mera "probabilità statistica", ma al differente concetto di "probabilità logica", la quale deve essere prossima alla certezza;
c) la "probabilità logica", a sua volta, va accertata collazionando le probabilità statistiche di successo della condotta omessa con tutte le circostanze del caso concreto, quali risultanti dal materiale probatorio raccolto (Cassazione, Sezioni unite, 30328/2002, in "D&G" n. 35 p. 21, ma specialmente p. 26-27). Al criterio delle "serie ed apprezzabili possibilità di successo", pertanto, è venuto a sostituirsi quello della "alta o elevata credibilità razionale" del giudizio controfattuale (così, per la giurisprudenza di questo Tribunale, Trib. Roma 24 gennaio 2004, Silvestri c. Ospedale S. Giovanni, inedita; Trib. Roma 3 dicembre 2003, Materassi c. Ventricelli, inedita; Trib. Roma 22 luglio 2003, Capodanno c. Azienda Ospedaliera S. Giovanni-Addolorata, inedita).
5.2. Tutto ciò premesso in iure, si rileva in facto che l'obbligo di apporre, sulle confezioni di sigarette, un avvertimento sui pericoli del fumo venne introdotto dall'art. 46 l. 428/1990 (norma oggi, peraltro, abrogata dall'art. 11, comma 1, d.lgs. 184/2003).
È dunque evidente che la condotta illecita ascritta dagli attori alla convenuta è cessata nel 1991. Orbene, sono gli stessi attori ad allegare che il proprio congiunto è prematuramente scomparso nel 2000. Perché dunque possa ritenersi sussistente un valido nesso causale tra l'omissione ascritta alla convenuta e la morte del sig. A., occorrerebbe poter affermare che se prima del 1991 sui pacchetti di sigarette fosse stata apposta la scritta "il fumo nuoce alla salute" (tale il contenuto dell'obbligo introdotto nel 1991), il sig. A. non avrebbe contratto il cancro, "con alta od elevata credibilità razionale".
Tale conclusione è all'evidenza insostenibile.
Il tumore al polmone non può, come ritenuto unanimemente dalla scienza medica, avere un periodo di latenza asintomatica di dieci anni (tanti ne sono trascorsi tra la cessazione della colposa omissione e l'evento di danno).
Autorevoli ed internazionali studi clinici hanno evidenziato che nei pazienti nei quali viene posta precocemente la diagnosi di cancro del polmone, la sopravvivenza a cinque anni è del 50%, percentuale che può arrivare all'85% nel caso sia possibile ricorrere all'intervento chirurgico resettivo oncologicamente corretto (Pasquotti, Caratteristiche e manifestazioni cliniche dei tumori dell'apparato respiratorio, Centro di Riferimento Oncologico Irccs, Aviano, 2002). È stato altresì rilevato che nel 2002 il tasso di sopravvivenza medio dei soggetti con tumore al polmone metastatico non sottoposti a trattamento è stato di 4-5 mesi, con un tasso medio ad 1 anno del 10%. Per contro, nello stesso anno, il tasso di sopravvivenza medio dei soggetti con tumore polmonare metastatico sottoposti a trattamento è stato approssimativamente di 8 mesi, con un tasso medio ad 1 anno del 33% (Rombolà, Il cancro del polmone - Prevenzione primaria e secondaria, Humanitas-Gavazzeni Bergamo, 2003).
Dunque la malattia che condusse a morte il sig. A. insorse necessariamente dopo il 1991, e quindi dopo che la condotta colposa omissiva era cessata. E poiché il sig. A., per ammissione degli stessi attori, aveva continuato a fumare anche dopo l'introduzione delle avvertenze stampigliate sulle confezioni di sigarette, non può affermarsi "con alta o elevata credibilità razionale" che, qualora tali informazioni fossero state fornite anche prima del 1991, egli avrebbe smesso di fumare e non avrebbe contratto la malattia.
Vale la pena aggiungere che, secondo le autorevoli Guidelines messe a punto dall'Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica) "per quanti smettono di fumare il rischio [di tumore al polmone] si riduce progressivamente nel corso dei 10-15 anni successivi, con latenze sempre maggiori rispetto all'età di interruzione dell'abitudine" (AA.VV., Linee-guida per Neoplasie toraco-polmonari, Aiom, Brescia 2003). Pertanto, anche a volere ammettere che il sig. A. avrebbe smesso di fumare non appena fosse stata introdotta l'avvertenza stampigliata sui pacchetti, resterebbe il fatto che la malattia è comunque insorta dieci anni dopo da tale momento: e poiché, come appena ricordato, il rischio di cancro diminuisce con l'aumentare del periodo di tempo trascorso dalla cessazione del consumo di sigarette, nella specie l'eventualità che la malattia non sarebbe stata contratta in caso di adeguata informazione non potrebbe comunque essere "alta od elevata", secondo il dictum di Cassazione 30328/2002, cit.
6. Come accennato, oltre alla mancanza assoluta di nesso causale, nel caso di specie manca una colpa giuridicamente rilevante dell'ente convenuto. O, per meglio dire, essa potrebbe anche sussistere, ma sarebbe comunque assorbita dalla colpa della vittima, ex art. 1227 c.c.
6.1. Che il fumo di sigarette nuoccia alla salute, e che possa provocare il tumore, deve ritenersi una nozione comune, diffusa, notoria e di palmare evidenza da moltissimi anni.
Già a partire dal XIX sec. la scienza medica accertò con chiarezza che i fumatori di pipa manifestavano con frequenza tumori del labbro inferiore, della lingua e del cavo orale. In un primo tempo l'effetto cancerogeno venne attribuito più al calore dell'imboccatura della pipa che ai prodotti di combustione del tabacco. In un secondo tempo venne avanzata l'ipotesi che anche i disturbi respiratori e i tumori del polmone fossero dovuti al fumo di sigaretta.
In particolare, già nel 1836, alcuni scienziati ammisero senza mezzi termini che "il tabacco è un veleno" ("thousands and tens of thousands die of diseases of the lungs generally brought on by tobacco smoking (...); How is it possible to be otherwise? Tobacco is a poison. A man will die of an infusion of tobacco as of a shot through the head"; così Green, New England Almanack and Farmer's Friend (1836)).
Nel 1845, alcuni fisiologi tedeschi accertarono che su un campione di venti decessi tra 18 e 35 anni, 10 erano causati dal fumo (così Benjamin I. Lane, The Mysteries of Tobacco, New York, Wiley and Putnam, 1845, pp. 131-132).
Nel 1876, il dott. Hippolyte A. Depierris (1810-1889) si chiedeva in forma retorica: "le tabac, qui contient le plus violent des poisons, la nicotine abrége-t-il l'existence? Est-il cause de la dégénérescence physique et morale des sociétés modernes?" (Depierris, Physiologie Sociale, Paris, Dentu, 1876).
Allarmi e raccomandazioni analoghi si riscontrano in numerosissimi testi scientifici pubblicati tra la fine del XIX e l'inizio del XX sec. (Meta Lander, The Tobacco Problem, Boston, Lee and Shepard, 1882, p. 55; Bruce Fink, Tobacco, Cincinnati, The Abingdon Press, 1915, p 30; John Kellogg, Tobaccoism, or, How Tobacco Kills, Battle Creek, The Modern Medicine Publishing Co., 1922, p. 118). Non a caso, nel 1908 in Inghilterra venne introdotta una legge che proibiva la vendita di sigarette ai minori di 16 anni.
All'inizio del 1900 si mise in relazione l'associazione tra fumo e malattie vascolari. Per quanto riguarda l'infarto miocardico, già a partire dal 1912 si accumularono evidenze sulla sua associazione con il fumo; i dati raccolti dal prof. English indicavano un aumento di rischio di 2-4 volte, soprattutto fra i 40 e i 60 anni.
Nel 1938, la rivista Science pubblicò i risultati di uno studio realizzato dal prof. Raymond Pearl, dell'Università John Hopkins. Questo studio è tuttora molto noto perché fu il primo che espose risultati inconfutabili. Dopo aver esaminato 6.813 pazienti, l'autore concluse che il 45% dei fumatori vivevano in media fino a 60 anni, contro il 65% dei non fumatori.
Il dott. Pearl, nella conclusione del suo lavoro, scriveva: "fumare tabacco accorcia la vita, proporzionalmente al numero di sigarette fumate quotidianamente".
Negli anni '50 e '60 questi dati, ben noti nel mondo scientifico, divennero noti al mondo politico ed alla massa dell'opinione pubblica. Nel rapporto annuale del Surgeon General (la massima autorità sanitaria statunitense) del 1964, si legge: "il fumo di sigaretta contribuisce sostanzialmente alla mortalità a causa di specifiche patologie e al tasso di morte globale".
Anche in Italia, negli anni '70 la circostanza che l'inalazione di fumo fosse dannosa alla salute, provocasse il cancro, poteva ritenersi un dato di comune esperienza. Campagne pubblicitarie promosse da organizzazioni non lucrative lanciarono in quegli anni moniti di qualche risonanza ("Chi fuma avvelena anche te, digli di smettere!"), ed è significativo che già con l. 584/1975 venne introdotto anche in Italia il divieto di fumare nei luoghi pubblici. E non è superfluo aggiungere che una legge siffatta non poteva non rendere avvertita l'opinione pubblica sui rischi del fumo, posto che la ratio di essa non poteva certo ravvisarsi, nemmeno per il più sprovveduto dei cittadini, nell'intento di tenere puliti i locali pubblici da cicche e mozziconi.
Deve dunque concludersi che:
a) la circostanza che il fumo di sigarette nuoccia alla salute è un fatto socialmente notorio;
b) la notorietà sociale di tale fatto è ben anteriore al 1990.
6.2. Alla luce di tali premesse, è agevole concludere che delle due l'una:
a) o il sig. A. ben sapeva della nocività del fumo, ed allora continuando a fumare ha accettato il rischio delle conseguenze di tale condotta, sicché il danno che ne è derivato non è risarcibile, ex art. 1227, comma 1, c.c.;
b) ovvero non era a conoscenza di tale nocività: ed anche in tal caso, avendo la vittima ignorato una nozione che da tempo poteva ritenersi elementare e communis omnium, il danno non è risarcibile, ex art. 1227, comma 1, c.c.
Varrà la pena aggiungere, con riguardo a quest'ultimo profilo, come non possa essere condivisa la tesi sostenuta da parte attrice - non formulata apertamente, ma chiaramente desumibile dal complesso delle motivazioni addotte - secondo cui l'obbligo di informativa gravante sul produttore o sul venditore di prodotti di largo consumo si estenderebbe fino a ricomprendere circostanze chiaramente rientranti nel patrimonio di nozioni proprio dell'uomo medio.
Infatti ciascun individuo, anche alla luce del generale dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., è tenuto all'adempimento dei "doveri inderogabili di solidarietà sociale", tra i quali rientra anche quello di accettare le conseguenze previste o pacificamente prevedibili delle proprie azioni. Detto altrimenti, colui il quale tiene una condotta negligente, non adottando cautele minime e conosciutissime di prudenza, non può poi dolersi di non essere stato informato, quasi che la nocività del fumo fosse un arcano ed inconfessato mistero noto solo a pochissimi.
7. Le conclusioni sin qui esposte, a parere di questo Tribunale, non meritano di essere riviste, neppur dopo la diversa opinione adottata recentemente da Corte appello Roma 1015/2005, inedita.
Questo Tribunale infatti, dopo avere attentamente soppesato le argomentazioni addotte dalla Corte capitolina, ritiene nondimeno che esse non possano essere condivise.
La Corte d'appello ha fondato la propria decisione di condanna (in quel caso, dell'Azienda Monopoli di stato) su due argomentazioni indipendenti: da un lato, che la colpa del produttore di tabacco, nel caso di morte di un fumatore per tumore polmonare, si presume ex art. 2050 c.c.; dall'altro, che comunque il produttore-venditore era in colpa per non avere informato l'acquirente sulla nocività del fumo.
7.1. Della inapplicabilità al caso di specie della presunzione di cui all'art. 2050 c.c. si è già detto supra, §§ 4 e ss., e dunque può qui richiamarsi quanto già esposto.
Deve soltanto aggiungersi come non appaia calzante il parallelo stabilito dalla Corte d'appello tra la produzione di sigarette e quella di emoderivati, gammaglobuline o sangue per trasfusioni (attività, queste ultime, ritenute dalla giurisprudenza di merito pericolose ex art. 2050 c.c.).
È infatti agevole rilevare, tanto con riferimento alla produzione e distribuzione di emoderivati che a quella di plasma per trasfusioni, che:
a) sia questo Tribunale, sia la stessa Corte d'appello, chiamate a valutare l'applicabilità o meno dell'art. 2050 c.c. a tali attività, desunsero la natura pericolosa di esse da un articolato "blocco normativo", composto da norme di legge e di regolamento che disciplinavano minuziosamente tutto il ciclo produttivo e distributivo di tali sostanze: allora, pertanto, si ritenne che proprio l'esistenza di tali norme rendesse palese come il legislatore stesso avesse ritenuto "pericolosa" la corrispondente attività, giacché altrimenti non ne avrebbe disciplinato ogni singolo dettaglio con norme tutte vòlte a tutelare la salute dei pazienti (Tribunale Roma 27 novembre 1998, in Giurispr. romana, 1999, 169; Trib. Roma 4 giugno 2001, ivi, 2001, 301; App. Roma 23 ottobre 2000, in Danno e resp., 2001, 1067). Un blocco normativo analogo vanamente si cercherebbe nel caso di specie; gli aspetti tecnici della produzione e della distribuzione di sigarette non sono infatti presidiati da norme ad hoc, eccezion fatta per l'informazione sulla nocività del fumo, come già visto introdotta solo nel 1990;
b) il danno potenzialmente arrecabile da un emoderivato è un danno da infezione: dunque, per un verso, un danno non connesso al "prodotto" in sé, ma causato dall'insorgere in questo di un agente patogeno; per altro verso, un danno che prescinde del tutto dall'uso o dall'abuso che si faccia della sostanza. Anche l'assunzione una sola volta ed in minima dose di un farmaco emoderivato infetto può causare gravi malattie. Appare dunque evidente che la produzione di emoderivati e quella di sigarette non sono comparabili, sotto il profilo della natura dell'attività e dei mezzi adoperati;
c) infine, mentre il contatto con un emoderivato infetto genera sicuramente un danno, l'uso o l'abuso del fumo genererà probabilmente, ma non certamente, un danno alla salute: anche sotto questo terzo profilo, pertanto, appare non corretto estrapolare la regulae iuris coniate per l'ipotesi di danni da emoderivati infetti, per applicarle sic et simpliciter a quella di danni da fumo.
7.2. Quanto, poi all'affermazione secondo cui l'E.T.I. sarebbe in colpa per non avere debitamente informato gli acquirenti di sigarette sulla nocività del fumo, si osserva quanto segue.
La colpa civile consiste in una deviazione: da leggi, regolamenti, ordini, discipline, norme contrattuali, regole di comune prudenza, leges artis.
Per stabilire dunque se una condotta sia o meno colposa, occorre accertare se essa sia o meno "deviante" rispetto ad una regola, del tipo di quelle appena indicate.
Nel caso di specie, è pacifico che non esistessero norme di legge o contrattuali che, prima del 1990, imponessero al produttore l'obbligo di informare l'acquirente della pericolosità del fumo.
Occorre dunque stabilire se, omettendo l'informazione, l'Azienda Monopoli, e per essa l'E.T.I., sia venuta meno a regole di comune prudenza.
7.3. Che l'Azienda Monopoli, fino al 1990, sia venuta meno ad una regola di comune prudenza deve escludersi.
È notorio ed incontestabile che il fumo nuoccia in caso di uso ripetuto o smodato. È l'abuti, non l'uti, che nuoce alla salute: non potrebbe seriamente contestarsi che ha ben poche possibilità di ammalarsi di tumore al polmone chi fumi una sigaretta al mese.
Ebbene, le attività o le sostanze che, se ripetute o frequentemente assunte possono nuocere alla salute, sono purtroppo infinite: così, l'abuso del personal computer nuoce alla vista, quello dell'alcol alle funzioni epatiche, quello di grassi alla colesterolemia, quello di zuccheri alla glicemia, la prolungata esposizione ai raggi solari nuoce alla pelle, e sinanche la eccessiva pigrizia nuoce al sistema circolatorio.
Sostenere dunque che il produttore di una sostanza o di una res che possa nuocere se assunta in quantità massicce, sia tenuto ex se, cioè in assenza di una norma che lo imponga, ad informare l'utilizzatore su tali pericoli, è argomento che prova troppo, perché mai nessuno ha anche soltanto ipotizzato responsabilità dei produttori di Pc per l'abbassamento della vista, ovvero di rosticceri e pasticceri per le malattie cardiovascolari od il diabete, oppure dei fabbricanti di divani e poltrone per i danni causati dall'obesità.
L'evidente reductio ad absurdum prova la fallacia della premessa, e cioè che il produttore di una sostanza che non sia perniciosa ex se, ma soltanto per l'uso smodato che di essa si faccia, non ha l'obbligo di informare l'acquirente, soprattutto quando i pericoli scaturenti dall'abuso di essa rientrino pacificamente nel patrimonio di nozioni dell'uomo medio.
8. In conclusione, mancando nella specie sia la colpa, sia il nesso causale, la domanda come formulata va rigettata.
9. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Nei rapporti tra E.T.I. e A.M.S. le spese vanno addossate alla prima, tenuto conto del principio della c.d. soccombenza virtuale. Ed infatti, qualora l'E.T.I. fosse stata condannata, la domanda di manleva sarebbe stata rigettata, per i motivi esposti in precedenza, §§ 4 e ss.
P.Q.M.
il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede:
- rigetta la domanda come proposta da A.T., G.A., A.A. nei confronti di E.T.I. Spa;
- condanna A.T., G.A., A.A. in solido alla rifusione in favore di E.T.I. Spa delle spese del presente giudizio, che si liquidano in euro 100 per spese; euro 1.000 per diritti di procuratore; euro 1.500 per onorari di avvocato, per complessivi euro 2.600, oltre spese generali ex art. 14 d.m. 127/2004, Iva e Cpa;
- dichiara assorbita la domanda come proposta da E.T.I. Spa nei confronti di Ministero dell'economia e Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato;
- condanna E.T.I. Spa alla rifusione in favore di Ministero dell'economia e Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato, in solido, delle spese del presente giudizio, che si liquidano in euro 50 per spese; euro 800 per diritti di procuratore; euro 1.200 per onorari di avvocato, per complessivi euro 2050, oltre spese generali ex art. 14 d.m. 127/2004, Iva e Cpa.