Corte di cassazione
Sezione I penale
Sentenza 1° aprile 2004, n. 15503

FATTO E DIRITTO

1. Con sentenza del 4 aprile 2003, la Corte militare di appello, in parziale riforma della sentenza emessa il 28 giugno 2002 dal Tribunale militare di Cagliari, dichiarava non doversi procedere nei confronti di G. Paolo in ordine al delitto di danneggiamento di edifici militari attenuato ai sensi dell'art. 171, n. 2, c.p.m.p. perché l'azione penale non poteva essere iniziata per difetto della richiesta di procedimento del comandante di corpo e gli riduceva la pena irrogatagli per il reato di ingiuria ad inferiore a mesi due di reclusione militare, che sostituiva con la multa di 2.280,00 euro.

La condanna per il reato di ingiuria ad inferiore, confermata dalla sentenza di appello, traeva origine dall'abitudine del capitano di fregata G. di rivolgersi al capo di terza classe S. Omar, suo inferiore, con l'espressione «cazzo pieno d'acqua» per rimproverarlo quando sbagliava qualcosa nel lavoro. Spiegava la Corte militare che la materialità del fatto era ammessa dallo stesso imputato, che usava l'espressione per cause attinenti al servizio e alla disciplina militare, a nulla rilevando che il S. avesse dichiarato di non sentirsi offeso e che l'imputato fosse solito usare un linguaggio volgare nei rapporti con i suoi dipendenti, atteso che la tutela della disciplina militare impone l'osservanza della regola del rispetto della reciproca dignità, senza mortificare ed avvilire gli inferiori.

Ricorre per cassazione il G. a mezzo del suo difensore di fiducia, deducendo, sotto il profilo della violazione dell'art. 196 c.p.m.p., che la Corte militare aveva omesso di valutare le dichiarazioni della persona offesa, che aveva escluso ogni intento offensivo nell'espressione del suo superiore, il quale, secondo altri testimoni, era solito usare questa fraseologia con i dipendenti con atteggiamento scherzoso. Mancava quindi sia l'idoneità dell'espressione ad offendere, sia la volontà del ricorrente di offendere l'inferiore: non solo il S. non si sentì offeso (e lo aveva ribadito anche in dibattimento, quando non era più militare e quindi non poteva subire più alcuna soggezione nei confronti del suo superiore), ma si rese conto anche che il comandante G. non intendeva affatto offenderlo.

2. Il ricorso non è fondato.

I reati consistenti nell'offesa dell'altrui patrimonio morale non richiedono alcun dolo specifico, per cui la volontà dell'evento è insita normalmente nella stessa volontarietà dell'azione e nella consapevolezza della sua obiettiva portata offensiva, sicché non abbisogna di ulteriore prova (cfr. Cassazione, Sezione quinta, 7597/1999, Beri Ribaldi, dove si precisa che basta ad integrare il dolo generico richiesto per il delitto di ingiuria l'uso consapevole di espressioni socialmente interpretabili come offensive, cioè adoperare in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente).

Come questa Corte non ha mancato di far rilevare (Cassazione, Sezione prima, 241/1999), il modo di rivolgersi ad un inferiore assume un valore particolarmente pregnante nelle previsioni incriminatrici contenute nel codice militare, in cui ha preminente rilievo la lesione del rigoroso rapporto gerarchico e disciplinare e del prestigio richiesto dallo specifico status, talché la cosciente volontà di pronunciare parole di univoco significato offensivo basta a concretare il reato, indipendentemente da moventi e finalità particolari.

Lungi dall'integrare gli estremi di un richiamo espresso in forma vivace e colorita, la frase «sei un cazzo pieno d'acqua» ha un significato manifestamente dispregiativo e quindi un'indubbia efficacia lesiva del prestigio dell'inferiore, apparendo tale espressione verbale sintomatologicamente indicativa di una mentalità e di un linguaggio non improntato a correttezza di rapporti con i dipendenti. Esula, peraltro, ogni finalità correttiva, astrattamente configurabile anche nei rapporti di lavoro, nell'uso di espressioni che, per forma univocamente e manifestamente offensiva, o per la valenza mortificatrice del contenuto, travalichino ogni finalità correttiva o disciplinare (Cassazione, Sezione quinta, 6603/1997, Covre, in Riv. Pen. 1997, 923).

Né il reato è escluso dal motivo di scherzo, non essendo lecito divertirsi o far divertire a spese dell'onore, del decoro o della reputazione altrui (Cassazione, Sezione prima, 1669/1997, e già Cassazione, Sezione quinta, 145/1972, Cavallini). Così come non vale ad escludere l'antigiuridicità penale del fatto l'uso ormai pressoché quotidiano di espressioni rozze e volgari o che il soggetto passivo abbia percepito l'espressione offensiva senza ritenersi offeso, in quanto l'oggetto della tutela penalistica va individuato in termini assai più ampi, e precisamente nel valore della dignità umana in quanto tale (Cassazione, Sezione quinta, 2486/1998, Poli, rv 212722).

Al rigetto del ricorso seguono le conseguenze di legge, meglio precisate nel dispositivo.

P.Q.M.

Visti gli artt. 606, 616 c.p.p. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.