Corte di cassazione
Sezione IV penale
Sentenza 4 marzo 2004, n. 10430
FATTO E DIRITTO
1. Il Tribunale di Como, in composizione monocratica, con sentenza del 13 novembre 2000 dichiarava il prof. A.G. colpevole del reato di omicidio colposo e lo condannava alla pena di anni uno di reclusione, con i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione.
2. Il dott. G. era stato chiamato a rispondere del reato in questione in qualità di direttore della casa di cura [omissis] e di medico curante di P.C., affetta da sindrome depressiva psicotica, ricoverata dal 30 giugno 1997 presso la suindicata casa di cura e deceduta in data 10 luglio 1997 per suicidio attuato mediante defenestrazione in luogo esterno alla casa di cura. A carico del dott. G. erano stati formulati i seguenti addebiti: a) aver consentito che la paziente fosse affidata alla custodia di M.M. accompagnatrice volontaria, priva di specializzazione e di conoscenza medico-infermieristica; b) aver omesso di fornire all'accompagnatrice medesima qualsivoglia informazione sullo stato mentale della paziente e financo sui pregressi tentativi di suicidio della stessa attuati mediante defenestrazione; c) aver consentito che la paziente fosse condotta fuori dalla clinica dalla accompagnatrice e pertanto in situazione di diminuita custodia prima del superamento della fase di latenza del trattamento psicofarmacologico antidepressivo, con conseguente aumento del rischio suicidario, cosicché la P., condotta dalla M. nella propria abitazione e recatasi da sola nel locale adibito a servizio igienico, si gettava dalla finestra in tal modo procurandosi un grave politraumatismo da cui derivava nell'immediatezza il decesso.
3. La Corte di appello di Milano, con la sentenza in data 4 febbraio 2002, confermava la sentenza in primo grado e condannava l'appellante alle ulteriori spese del giudizio.
La Corte di appello territoriale, nel confermare la penale responsabilità del G., richiamava i contenuti motivazionali della sentenza di primo grado sulla prevedibilità ed evitabilità dell'evento nonché sulla esigibilità di una condotta atta a prevenire l'evento.
In ordine alle censure di merito dedotte dall'appellante, sotto il primo profilo (prevedibilità dell'evento), la Corte evidenziava, ad integrazione delle argomentazioni già esposte dal primo giudice che: la P. era soggetto ad alto rischio suicidario in considerazione della natura della malattia diagnosticata e dei tre pregressi tentativi messi in atto in Toscana in epoca immediatamente precedente e che tale pericolo concreto, e non astratto, si presentava elevatissimo; i tentativi di suicidio messi in atto dalla P., soprattutto in base alla ricostruzione effettuata a posteriori ed anche in dibattimento, avevano evidenziato la sicura serietà delle intenzioni, consentendo di escludere il mero intento dimostrativo; tale conclusione non poteva essere validamente contrastata dalle dichiarazioni rese dai testi psichiatri M. e V. sulla situazione psichiatrica della paziente, che sarebbero state assunte in spregio del disposto dell'art. 499, comma 1, c.p.p. né dal parere tecnico del consulente della difesa, secondo il quale se avesse voluto realmente suicidarsi (con riferimento ai tentativi) la P. sarebbe riuscita nell'intento.
Sotto il secondo profilo (evitabilità dell'evento e sussistenza del nesso causale tra la colpa contestata e l'evento), i giudici di appello, nel confermare la correttezza della decisione assunta dal giudice di primo grado, sottolineavano che l'uscita dalla casa di cura della P., che per la sua anamnesi recente presentava un rischio suicidario specifico (tutti i tentativi di suicidio erano avvenuti con le stesse modalità, defenestrazione dal quarto piano), avrebbe determinato un aumento del rischio che la paziente ponesse in essere un ennesimo gesto di autosoppressione.
Sotto il terzo profilo (esigibilità di una condotta atta a prevenire l'evento), i giudici di appello, nel passare in rassegna i singoli addebiti colposi evidenziati dalla sentenza di primo grado a carico del G., rimarcavano che la decisione del primo giudice prescindeva del tutto dalle problematiche della l. 180/1978, intrattenendosi invece su connotati della condotta (mera esternazione di dissenso alla manifestazione della volontà della P. di uscire dalla casa di cura, l'apprestamento di un'assistenza più informata o più qualificata) che nulla avevano a che fare con il sistema di assistenza sanitaria introdotto da quella legge, fondato sulla volontarietà delle cure mediche e sulla proibizione della custodia del malato di mente, al di fuori del trattamento sanitario obbligatorio.
4. Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione A.G. a mezzo di due difensori.
5. L'avv. Federico Stella articola quattro motivi.
Con il primo lamenta l'erronea applicazione della legge penale con riferimento all'art. 40 cpv ed alle ll. 180/1978 e 833/1978: i giudici di appello sarebbero incorsi in un grave errore di interpretazione delle leggi suindicate laddove hanno ritenuto del tutto inconferente il richiamo della difesa ai principi da esse sanciti, così confermando la motivazione del giudice di primo grado, che aveva escluso ogni attinenza alla vicenda della normativa in questione, sulla base della considerazione che all'imputato non era stata contestata la mancata adozione di strumenti di coazione, ma la violazione dell'obbligo di protezione nei riguardi di una paziente a rischio e quindi affidata alla custodia del sanitario; tale erronea interpretazione, secondo l'assunto difensivo, non avrebbe colto che il nuovo assetto legislativo in tema di malattia mentale prevede, al di fuori delle ipotesi del trattamento sanitario obbligatorio, che gli interventi terapeutici sono volontari e non sono consentite limitazioni alla libertà personale del paziente.
Con il secondo motivo lamenta la mancanza della motivazione risultante dal testo della sentenza impugnata in relazione al secondo motivo di impugnazione dedotto in appello con i motivi nuovi, secondo il quale il comportamento del professor G. era in perfetta aderenza all'interpretazione delle ll. 180/1978 e 833/1978 adottata fino al momento del fatto dalla Suprema Corte: conseguentemente, se pure i giudici di appello avessero ritenuto erronea l'interpretazione del ricorrente, avrebbero dovuto proscioglierlo per errore scusabile sul divieto.
Con il terzo motivo lamenta la violazione dell'art. 40 c.p. e la conseguente contraddittorietà ed illogicità della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla pretesa sussistenza del rapporto causale: i giudici di merito, sotto il profilo causale, avevano individuato quale condotta penalmente rilevante attribuita al prof. G. il permesso dallo stesso concesso alla P. di uscire dalla casa di cura per mangiare un gelato insieme con l'accompagnatrice (tale ultimo aspetto relativo all'omesso apprestamento di una assistenza qualificata e di una completa informazione dell'accompagnatrice, rileva il ricorrente, è stato dai giudici affrontato nella parte della sentenza che motiva sul grado della colpa): in tal modo la sentenza si sarebbe posta in contrasto con l'orientamento giurisprudenziale espresso dalla Suprema Corte (v. Cass., Sez. Un., 10 luglio-11 settembre 2002, imp. Franzese), secondo il quale potrà pervenirsi al giudizio di responsabilità del sanitario solo quando, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e "processualmente certa" la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica" (sul punto specifica il ricorrente che neanche seguendo il criterio probabilistico/statistico, precedente all'interpretazione sopra enunciata, l'ipotesi accusatoria della esistenza del nesso causale avrebbe potuto trovare conferma).
In sostanza, la Corte di appello, nell'affrontare il problema del nesso causale, non ha affrontato, così violando il canone della coerenza logica, la questione, pure sollevata dalla testimonianza resa dall'esperto psichiatra dell'accusa, sulla sussistenza della stessa probabilità che la paziente si suicidasse all'interno della causa di cura o durante il tragitto in macchina, ancora prima rispetto alla data in cui il suicidio si è effettivamente verificato.
Con il quarto motivo assume l'inosservanza della legge penale con riferimento all'art. 43 c.p. e la conseguente illogicità della motivazione in relazione alla prevedibilità del suicidio: avrebbero errato i giudici di merito nel formulare il giudizio di prevedibilità dell'evento alla luce anche di dati ed elementi conosciuti e conoscibili solo ex post, quale il test di Rorscach e lo scritto della paziente rinvenuto post mortem; avrebbero altresì errato nel considerare rese al di fuori della legge in violazione dell'art. 499, comma 1, c.p.p., le dichiarazioni dei testi psichiatri M. e V. sulla situazione psichiatrica della paziente, soprattutto sotto il profilo della prevedibilità dell'evento, da entrambi escluso.
Con un motivo nuovo, ritualmente depositato, l'avv. Stella, ad integrazione di quanto già esposto, in merito all'accertamento del rapporto causale assume: i giudici di merito hanno ritenuto, a dimostrazione del nesso eziologico, che l'uscita dalla casa di cura avrebbe aumentato il rischio suicidario, così contravvenendo alla interpretazione formulata dalle Sezioni Unite con la nota sentenza del luglio 2002 secondo la quale il criterio di imputazione costituito dall'aumento o mancata diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente) è ripudiato dal vigente sistema penale perché finirebbe con il comportare una abnorme estensione delle responsabilità in violazione del principio di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio. Con il citato motivo insiste, inoltre, sul rilievo che la sentenza impugnata non ha dimostrato che l'azione doverosa omessa avrebbe scongiurato il verificarsi dell'evento lesivo e che in ogni caso il nesso di causalità e la colpevolezza dell'imputato non sono stato provati dall'accusa al di là di ogni ragionevole dubbio: da ciò avrebbe dovuto conseguire l'esito assolutorio di cui all'art. 530, comma 2, c.p.p.
6. Il secondo difensore, Avv. Raffaele Dolce, ha dedotto due motivi di impugnazione ed ha depositato, ad integrazione, una memoria illustrativa.
Con il primo ha denunciato l'erronea applicazione della norma contenuta nel primo comma, terza ipotesi, dell'art. 43 c.p. per avere la sentenza impugnata ritenuto colposo il comportamento del G. nonché la mancanza di motivazione in ordine alla reiezione degli argomenti difensivi addotti dalla difesa a dimostrazione della non configurabilità come colposo del suddetto comportamento: o i giudici di merito non avevano affrontato, prima di qualificare come colposo il comportamento del G., la questione se questi potesse ipotizzare, nel momento in cui concedeva l'autorizzazione alle due donne di fare un giretto e di consumare un gelato, che i fatti si svolgessero secondo le ormai note modalità ed in tale caso la motivazione sarebbe mancante perché non aveva fornito alcuna giustificazione della reiezione di quanto dedotto dalla difesa per contestare la prevedibilità dell'evento; o i giudici di merito avevano risolto implicitamente in senso positivo la suindicata questione ed in tal caso la motivazione sarebbe illogica, non potendo esigersi anche dall'uomo giudizioso della medesima professione dell'imputato una simile previsione.
Con il secondo motivo ha denunziato la inosservanza della norma contenuta nel secondo comma dell'art. 41 c.p. - causa sopravvenuta sufficiente da sola a determinare l'evento - e la mancanza di motivazione in ordine alla suddetta inosservanza: la Corte di appello avrebbe omesso di valutare se le condotte poste in essere dalle due donne, cioè l'essersi recate in automobile, lontano dalla clinica e, quindi, nell'appartamento al quarto piano della M., anziché fare soltanto quanto autorizzato, non concretassero condizioni sopravvenute escludenti il rapporto di causalità tra il comportamento del sanitario e l'evento, e da sole sufficienti a determinare l'evento.
Più precisamente la Corte avrebbe apoditticamente sottolineato sul punto che "il rapporto causa effetto, va valutato alla stregua delle più elevate probabilità che all'esterno della casa di cura la P. aveva di potersi recare ovunque e, quindi, anche in una zona alta e da qui precipitare a terra". Sostiene il ricorrente che tale motivazione contravverrebbe all'insegnamento della Suprema Corte (v. Cass., Sez. Un., 27/2002) secondo il quale "l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale".
7. I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell'affermato giudizio di responsabilità.
Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa, di nesso di causalità e di eventuale interruzione di questo per la sopravvenienza di causa sopravvenuta eccezionale ed imprevedibile.
In proposito, non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito.
In questa sede, non è possibile una rinnovata valutazione dei fatti e degli elementi di prova.
È principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò in quanto l'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass., Sez. V, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cass., Sez. VI, 6 marzo 2003, Di Folco).
Ciò premesso in termini generali, deve ritenersi che, proprio con riguardo all'apparato argomentativo a supporto del ritenuto addebito di colpa, la sentenza di merito appare congruamente motivata in relazione a tutti i profili di interesse, con corretta applicazione dei principi in tema di nesso di causalità, con particolare attenzione alla prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso verificatosi (suicidio) nonché alla esigibilità in concreto da parte del prevenuto (sanitario cui era affidata la paziente) di una condotta atta a prevenirlo.
Sotto il primo profilo, è stato correttamente evidenziato, anche attraverso una serrata e convincente critica delle deposizioni dei testi M. e V. (indipendentemente dal problema della legittimità dell'assunzione di tali deposizioni), che la P. era soggetto ad alto rischio suicidario in considerazione della natura della malattia diagnosticata e dei tre pregressi tentativi messi in atto in Toscana in epoca immediatamente precedente e che tale pericolo concreto, e non astratto, si presentava elevatissimo; i tentativi di suicidio messi in atto dalla P. costituivano, del resto, circostanza fattuale obiettiva assolutamente inequivoca. In una tale prospettiva, sotto l'altro profilo, è stato anche sottolineato che l'uscita dalla casa di cura della P., costituiva circostanza fattuale tale da determinare un aumento del rischio che la paziente ponesse in essere un ennesimo gesto di autosoppressione, qualora non fosse stata accompagnata dal contestuale apprestamento di un'assistenza più informata o più qualificata da parte dell'assistente volontaria cui la medesima era stata affidata dal prevenuto, tale da evitare il verificarsi della evidenziata situazione di rischio di recidiva. Rischio di recidiva che non vi sarebbe stato laddove il prevenuto avesse adeguatamente informato, come avrebbe potuto e dovuto, l'assistente volontaria delle condizioni della paziente.
L'apprezzamento di tali situazioni fattuali, peraltro neppure contestate, non potrebbero (né possono) essere sindacate in questa sede, visto l'ambito del giudizio di legittimità come sopra ricostruito, non palesandosi del resto come ricostruite in termini illogici o facendo richiamo a massime di esperienze incongrue o manifestamente inesatte.
Non può sostenersi in senso in senso contrario, per farne discendere l'incongruenza e l'inesattezza della decisione, che la Corte di merito abbia basato la decisione su una ricostruzione dei rapporti tra medico e paziente non autorizzata dalla l. 180/1978.
È vero il contrario, giacché la scelta del sanitario di accedere all'uscita dalla struttura della paziente è stata dal giudicante valutata positivamente.
E non poteva essere altrimenti giacché la coercizione del malato avrebbe potuto ammettersi solo in presenza delle condizioni per il trattamento sanitario obbligatorio, qui all'evidenza insussistenti.
L'addebito, piuttosto, è stato rinvenuto, nelle modalità di affidamento della paziente all'assistente volontaria, nelle quali si è ritenuto, in modo argomentativamente convincente, di apprezzare una superficialità comportamentale qualificata dalla mancata considerazione e dei pregressi comportamenti della paziente (con rischio di recidiva) e della inesperienza della volontaria (cui comunque non venivano rappresentate la reale condizione della paziente e le cautele che dovevano caratterizzare l'uscita per evitare rischi di recidiva).
Da questa premesse, logicamente sostenibile, e quindi qui non sindacabile, è il conseguente giudizio di sussistenza del nesso causale posto alla base della decisione di condanna, avendo il giudicante fornito una motivazione immune da censure, siccome del resto basata su una considerazione fattuale incontrovertibile: l'autorizzazione all'uscita con l'affidamento alla volontaria aveva rappresentato la premessa imprescindibile per la realizzazione delle condizioni che avevano reso possibile il gesto suicidario.
Trattasi di un giudizio positivo sulla sussistenza della condotta colposa del prevenuto che non si appalesa affatto illogico.
In senso contrario, piuttosto, potrebbe valere l'eventuale rilievo riconosciuto ad una causa eccezionale, sopravvenuta, tale da interrompere il nesso tra la rilevata condotta colposa e l'evento dannoso. Causa che, in via di ipotesi, potrebbe rinvenirsi nella condotta della volontaria che è risultata non aver rispettato il programma di uscita sottoposto all'attenzione del dott. G. (andare a prendere il gelato), con la deviazione verso la propria abitazione. Trattasi di profilo correttamente evidenziato anche nei motivi di ricorso che, peraltro, non può trovare qui accoglimento.
Infatti, il giudicante di merito, sia pure con motivazione implicita ma chiaramente desumibile dal complessivo apprezzamento della parte esplicativa della decisione, ha escluso che potesse integrare tale causa eccezionale la decisione della volontaria pur se "derogativa" rispetto al programma originario rappresentato al sanitario per ottenerne l'autorizzazione all'uscita.
Ciò perché, a ben vedere, alla base della medesima vi è stata pur sempre la condotta colposa del G., il quale, non rappresentando adeguatamente il caso della paziente e le cautele che dovevano essere garantite ed, oltretutto, aderendo ad un programma piuttosto generico (l'uscita doveva essere "per fare un giretto", "per prendere un gelato", v. pag. 4 sentenza impugnata), ha posto egli stesso le condizioni per la verificazione della condotta che ha reso possibile l'evento.
In tal modo, i giudici di merito, nel fondare il giudizio di responsabilità dell'imputato, pur in presenza di un comportamento della volontaria sviluppatosi in violazione del "mandato" concessole, hanno fatto corretta applicazione, nella subiecta materia, del principio dell'equivalenza delle cause (v. Cass., Sez. V, 14 luglio 2000, Falvo), accolto dal nostro ordinamento penale (art. 41 c.p.), secondo il quale il nesso causale può escludersi solo se si verifichi una causa autonoma e successiva, rispetto alla quale la precedente sia da considerare tamquam non esset e trovi nella condotta precedente solo l'occasione per svilupparsi; cioè quando tale causa si inserisca nel processo causale in modo eccezionale, atipico ed imprevedibile (art. 41, comma 2, c.p.); mentre il nesso non può essere escluso quando la causa successiva abbia solo accelerato la produzione dell'evento, destinato comunque a compiersi. In una tale prospettiva, all'evidenza, negando alla condotta violativa della volontaria il rilievo richiesto dal sistema normativo per recidere il nesso causale tra l'evento lesivo e la ritenuta condotta colposa dell'imputato.
Né, per escludere la responsabilità del prevenuto a fronte di un evento dannoso ragionevolmente ritenuto prevedibile (per il rischio di recidiva obiettivamente riscontrabile) ed evitabile (laddove la volontaria fosse stata adeguatamente preavvisata di tale rischio), potrebbe valere il "principio dell'affidamento" ossia il principio secondo il quale ogni consociato può confidare che ciascuno si comporti adottando le regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente proprio della attività che di volta in volta viene in questione. Tale principio, infatti, pacificamente, non è invocabile allorché l'altrui condotta imprudente, ossia il non rispetto da parte di altri delle regole precauzionali normalmente riferibili al modello di agente che viene in questione, si innesti sull'inosservanza di una regola precauzionale da parte di chi invoca il principio: ossia allorché l'altrui condotta imprudente abbia la sua causa proprio nel non rispetto delle norme di prudenza, o specifiche o comuni, da parte di chi vorrebbe che quel principio operasse (Cass., Sez. IV, 29 aprile 2003, Pg Torino ed altri in proc. Morra). Ciò che nella specie è indubitabile a fronte della rilevata mancanza di adeguato preavvertimento della volontaria, cui la paziente era affidata, circa le condizioni di questa, di cui pure il prevenuto era "garante".
Va ancora soggiunto, per completezza, che la difesa ha invocata la diretta applicabilità dei principi espressi dalla sentenza delle Sezioni Unite 10 luglio 2002, imputato Franzese.
Tale giurisprudenza, peraltro, riguarda specificamente la responsabilità omissiva del sanitario chiamato nei confronti del paziente a formulare la diagnosi di una possibile patologia e ad apprestare i relativi rimedi.
Non è quindi direttamente invocabile nel caso di specie, dove, a tacer d'altro, il profilo della colpa che interessa presenta anche e prevalentemente i caratteri della colpa commissiva (per avere l'imputato consentito l'uscita dalla casa di cura della paziente).
Piuttosto, può e deve essere qui utilmente richiamabile l'assunto finale su cui poggia detta decisione: quello secondo cui al giudizio di responsabilità può e deve pervenirsi solo quando, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e "processualmente certa" la conclusione che la condotta incriminata è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica".
Or bene, diversamente da quanto prospettato in ricorso, deve ritenersi che la sentenza gravata abbia fatto sostanziale applicazione di questi principi.
Infatti dalla motivazione emerge un giudizio affermativo di responsabilità in termini di certezza processuale che riconduce questa, in modo convincente, al mancato avvertimento sulle condizioni della paziente addebitabile all'imputato, escludendo, per le ragioni suddette, l'intervento di fattori alternativi (qui, per quanto interessa, la condotta della volontaria) che possano avere eliso in modo processualmente significativo la rilevanza causale di tale condotta colposa.
In definitiva, rileva il Collegio che la sentenza impugnata ha adeguatamente affrontato, sia in fatto, sia in diritto, il problema dell'esistenza del nesso di causalità, risolvendolo in senso positivo.
I giudici di merito, infatti, diversamente da quanto prospettato dalla difesa, hanno convincentemente e motivatamente individuato nel comportamento del dott. G., che affidò la paziente alla volontaria senza una preventiva ed accurata informazione delle reali condizioni della stessa, la condizione necessaria dell'evento lesivo, pervenendo a quel giudizio, in termini di "certezza processuale", in modo argomentato ed esente da censure. In particolare, escludendo che la condotta della volontaria possa avere operato in modo da recidere il nesso causale.
In conclusione, le statuizioni dei giudici di merito risultano esenti da censure in diritto e convenientemente motivate, imponendosi il rigetto del ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.