Corte di cassazione
Sezioni unite penali
Ordinanza 11 febbraio 2004, n. 5466
OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO
Mario G. ricorre per Cassazione avverso la sentenza con la quale, il 30 aprile 2002, la Corte d'appello di Roma, preso atto dell'accordo intervenuto tra le parti a mente dell'art. 599/4 c.p.p., ha ridotto la pena inflitta in primo grado all'imputato, ritenuto colpevole dei reati di rapina aggravata continuata, sequestro di persona continuato, ricettazione, furto aggravato e porto abusivo continuato di strumenti atti ad offendere, commessi anche in danno della Cassa di Risparmio di Ascoli Piceno (in Montegranaro il 18 giugno 1996), ritualmente costituitasi parte civile, a sette anni di reclusione e milleseicento euro di multa con le statuizioni consequenziali.
Dolendosi il ricorrente soltanto dell'entità della sanzione da lui stesso indicata, il Primo Presidente di questa Corte suprema, in applicazione dell'art. 610/1 c.p.p., assegnava il processo alla sezione settima penale per l'eventuale declaratoria d'inammissibilità dell'impugnazione.
Nello stesso senso concludeva il PG.
In vista dell'udienza camerale fissata per il giorno 28 ottobre 2003 la parte civile "Carisap spa", il 1° ottobre 2003, depositava una memoria, chiedendo che il ricorso del G. fosse dichiarato inammissibile per manifesta infondatezza del motivo enunciato e che l'imputato fosse condannato a rifonderle le spese sostenute nel grado come da nota allegata.
Con ordinanza depositata l'11 novembre 2003 la settima sezione penale, ravvisando un contrasto di giurisprudenza in tema di «possibilità o meno di condanna del ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della costituita parte civile nel procedimento in camera di consiglio non partecipata...» ha rimesso il ricorso alle Su penali per la decisione.
Il Pg ha chiesto che la questione fosse decisa in senso positivo, limitatamente al caso, ricorrente nella specie, che la parte interessata abbia «espletato in concreto attività difensiva».
Tanto premesso, prima di affrontare i temi in discussione, è opportuno chiarire che il trasferimento della cognizione e decisione del ricorso dall'"apposita sezione" di cui all'art. 610/1 c.p.p. alle sezioni unite non altera in alcun modo la natura del procedimento camerale e non influisce, perciò, neppure sulla forma del provvedimento conclusivo che è quella dell'ordinanza.
L'attribuzione di tale forma alla pronuncia dichiarativa dell'inammissibilità del ricorso con la connessa possibilità che la stessa sia sottoscritta dal solo presidente del collegio giudicante in virtù della regola generale dettata dall'art. 134 c.p.c. non è giustificata soltanto dal parere espresso in merito dall'Ufficio del massimario (che sembra ispirarsi a ragioni di opportunità piuttosto che di natura rigorosamente tecnica), né dall'esigenza di creare un parallelismo con l'istituto introdotto per il giudizio civile di legittimità dall'art. 375 c.p.c., come sostituito dall'art. 1 della l. 89/2001, ma, oltre che dalla disposizione di carattere generale dettata in materia d'inammissibilità dell'impugnazione dall'art. 591/2 c.p.p., dal tenore letterale dell'art. 648 dello stesso codice, per il quale «se vi è stato ricorso per cassazione, la sentenza è irrevocabile dal giorno in cui è pronunciata l'ordinanza o la sentenza, che dichiara inammissibile o rigetta il ricorso».
Non v'è dubbio, quindi, che anche le decisioni della Corte di cassazione possono assumere, nei congrui casi, la veste dell'ordinanza, ancorché, in quanto provvedimenti definitivi del giudizio, esse abbiano, nella sostanza, il carattere di sentenze.
Ciò posto, preliminare all'esame dello specifico problema sollevato con l'ordinanza di rimessione è il rilievo della palese incongruenza del motivo indicato dal G. a sostegno del ricorso, del quale deve conseguentemente dichiararsi l'inammissibilità ai sensi dell'art. 606/3 c.p.p., per manifesta infondatezza.
Come questa Corte ha ripetutamente affermato (ex pluribus, Riv. 188084; 197348; 197655; 197844; 198926; 206318; 210639; 219852), fuori dell'ipotesi della sua illegalità, la pena concordata tra le parti e approvata dal giudice procedente non può essere più messa in discussione.
La relativa richiesta e il consenso prestato alla sua applicazione sono, infatti, espressioni della volontà delle parti di esercitare il potere dispositivo riconosciuto loro dalla legge e concorrono alla formazione di un negozio giuridico processuale, liberamente stipulato, che, una volta ricevuto con la ratifica del giudice il crisma della conformità ai canoni ordinamentali, non può essere unilateralmente modificato da colui che lo ha promosso o vi ha aderito, a pena concordata tra le parti e approvata dal giudice procedente non può essere più messa in discussione con l'allegazione, per giunta, di ragioni precluse dall'implicita rinuncia a farle valere contenuta nella stessa proposta di determinazione del trattamento sanzionatorio in una certa misura.
La declaratoria dell'inammissibilità dell'impugnazione comporta, a mente dell'art. 616 c.p.p., la condanna del G. al pagamento delle spese processuali e, ravvisandosi rilevanti profili di colpa (Corte costituzionale 186/2000) nell'esperimento di un'impugnativa inequivocabilmente pretestuosa e dilatoria, anche di una sanzione pecuniaria fissata in duemila euro.
Si tratta, ora, di stabilire se il ricorrente sia tenuto, inoltre, a pagare alla parte civile, che ne ha fatto rituale richiesta presentando la nota prevista dall'art. 153, disp. att. c.p.p., le spese di rappresentanza a difesa sostenute in questo grado di giudizio.
La questione è stata oggetto dell'attenzione di questa Corte in alcune decisioni di contenuto contrastante.
Basata su argomentazioni di tono prevalentemente formale è la tesi sostenuta dalla quinta sezione penale in una pronuncia (Cassazione sezione quinta, 1663/1995 - Cafagna), rimasta, peraltro, isolata (le successive decisioni conformi a tale orientamento lo recepiscono senza minimamente enunciare le ragione dell'adesione) che nega a questa Corte il potere attribuito al giudice in via generale dall'art. 541/1 c.p.p. (indirettamente richiamate per i giudizi d'impugnazione dall'art. 168 disp. att. c.p.p.) sol perché il procedimento camerale disciplinato dall'art. 611/1 c.p.p., cui l'art. 610 rinvia, si svolge senza l'intervento "fisico" dei difensori delle parti, possibile solo nel caso di discussione del ricorso in pubblica udienza.
L'erroneità di tale opinione è stata dimostrata dalla settima sezione penale con due recenti ordinanze (15908/2002 - Randazzo; 5274/2003 - Mungo) che trattano ex professo tutta la problematica, rimarcando, tra l'altro, che l'art. 523 c.p.p., il quale, secondo la quinta sezione riveste un'importanza decisiva ai fini della formulazione di una corretta risposta al quesito, non è norma di carattere generale, ma riguarda soltanto la fase della discussione finale, che segue il dibattimento, laddove l'art. 153 disp. att. si limita a prescrivere la presentazione della nota delle spese "al più tardi" congiuntamente alle conclusioni, individuando, in tal modo un termine finale per l'adempimento, senza porre sbarramenti al termine iniziale e senza fare alcun riferimento a particolari fasi processuali.
Ancora più pregnanti e risolutive sono le considerazioni riguardanti la struttura del procedimento camerale disciplinato dagli artt. 610 e 611 c.p.p. e le facoltà riconosciute alle parti interessate.
In effetti, il legislatore, perseguendo l'obiettivo di garantire, in qualche modo, il contraddittorio anche in questo tipo di procedimento, stabilisce che "tutte le parti", indistintamente, fino a quindici giorni prima dell'udienza «possono presentare motivi nuovi e memorie e fino a cinque giorni prima possono presentare memorie di replica». Per essere messe in grado di esercitare i loro diritti, le parti devono ricevere tempestivamente l'avviso della data fissata per l'udienza e del "deposito degli atti" con l'indicazione della "causa d'inammissibilità" del ricorso rilevata dal primo Presidente (art. 611/5 c.p.p.).
L'esecuzione di tali adempimenti determina una situazione di confronto "virtuale" tra portatori di confliggenti interessi, la quale può materializzarsi in operazioni specifiche, quali la consultazione del fascicolo processuale, la redazione di memorie e contromemorie, istanza e simili, vale a dire nello svolgimento di un'attività espressamente diretta alla salvaguardia dalle singole posizioni soggettive e, quindi, anche di quella della parte civile, in contrapposizione alle ragioni addotte dal ricorrente imputato, la quale comporta indubbiamente degli oneri, che esigono un ragionevole ristoro, commisurato alla congruenza ed entità dell'impegno. Il quale - è quasi superfluo sottolinearlo - non può esaurirsi nella pura e semplice presentazione delle richieste finali e della nota spese, ma deve consistere nella prospettazione, a sostegno delle medesime, degli argomenti ritenuti idonei allo scopo di contrastare l'iniziativa dell'imputato, in guisa che risulti evidente la "partecipazione" non meramente formale, ma effettiva e feconda dell'interessato al processo dialettico in cui si articola anche il particolare rito in considerazione.
Questa indagine, che va fatta caso per caso, è anche utile al fine di escludere i possibili intenti emulativi (nel senso accolto dall'art. 833 c.c.) pure paventati dalla quinta sezione penale, i quali, tuttavia, in quanto espressione di moti interiori, ove non si traducano in atti palesemente incoerenti, impertinenti e, in ogni caso, come meglio si dirà appresso, non sostenuti da un interesse legittimo, concreto e attuale, sono giuridicamente irrilevanti.
Ma è tempo di chiedersi che cosa debba esattamente intendersi per interesse della parte civile a concludere nel procedimento preordinato alla verifica dell'inammissibilità del ricorso.
Il quesito va esaminato non solo alla luce della giurisprudenza di questa corte, ma anche di quella costituzionale, che ha affrontato il delicato argomento in una prospettiva nuova e più ampia.
L'orientamento consolidato dalla Corte di cassazione (ex pluribus sezione quarta, 3715/1989 - Bonura, sezione seconda, 8230/1996 - Sicco; sezione quinta, 11272/1998 - Cucumazzo) è nel senso che l'onere della rifusione delle spese giudiziali sostenuto dalla parte civile consegue alla soccombenza, la quale deve essere valutata non in astratto, ma con riferimento al tenore del gravame proposto e al vantaggio pratico derivante alla parte anzidetta dal suo mancato accoglimento ovvero, se si preferisce, al pregiudizio che alla stessa sarebbe causato da una soluzione favorevole all'imputato.
Secondo l'indirizzo seguito dalla settima sezione penale con le due pronunce citate, il vantaggio (o il mancato pregiudizio) può avere, tuttavia, anche carattere meramente processuale e risolversi nel conseguimento, attraverso l'immediata declaratoria d'inammissibilità del ricorso, di un più rapido passaggio in giudicato dell'intera decisione impugnata e, quindi, delle statuizioni di condanna inerenti all'azione civile esercitata in sede penale.
Di qui l'evidente interesse della parte civile a sostenere una decisione che eviti il possibile rinvio del procedimento alla sezione ordinaria competente per materia e il rischio connesso al conseguente giudizio, permettendo, invece, una celere definizione del caso, particolarmente utile quando il danneggiato dal reato costituitosi in giudizio non si sia avvalso, nei gradi precedenti, della facoltà riconosciutagli dagli artt. 540 e 600 c.p.p. o abbia visto disattesa la sua domanda.
Sono queste considerazioni corrette e plausibili, le quali implicano un'estensione del concetto d'interesse della parte civile dall'ipotesi che venga in discussione il fondamento stesso della pretesa risarcitoria a quella in cui il rischio è costituito dal differimento del suo soddisfacimento con danno ulteriore.
La soluzione delineata, la quale prescinde evidentemente dalla natura dell'obiettivo perseguito in concreto dall'imputato ricorrente, trova un solido aggancio nella modifica apportata al testo dell'art. 444/2 c.p.p. dall'art. 32 dalla l. 479/1999. La norma, che recepisce il principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 443/1990, consente ora al giudice di condannare l'imputato a pagare alla parte civile le spese processuali, anche in assenza di un provvedimento sulla domanda di restituzione o di risarcimento del danno.
La Corte costituzionale ha ritenuto, infatti, del tutto ingiustificato il pregiudizio derivante alla parte civile dalla «mancata decisione sull'azione civile esercitata nel processo penale dal soggetto cui il reato ha recato danno», non essendo l'omissione «ricollegata né a una determinazione dell'interessato..., né a qualcosa di addebitabile a lui, ma solo a una scelta tra le parti del rapporto processuale penale...», qualificando, inoltre, persino "paradossale" lasciare a carico della medesima parte civile le spese incontrate per iniziative e attività preordinate alla tutela dei propri diritti.
Il giudice delle leggi ha, in tal modo, svincolato le conseguenze previste dall'art. 541/1 c.p.p. dalla statuizione affermativa della responsabilità civile, riconoscendo legittima la pretesa della parte civile, che non sia rimasta inerte, al rimborso delle spese sostenute nel processo quando la mancata pronuncia sull'oggetto principale del giudizio civile non sia a lei addebitabile.
La decisione della Corte costituzionale va riguardata, considerando che il suo intervento "terapeutico" concerne una norma applicabile a un procedimento speciale, in cui la legittimazione della parte civile a ottenere il rimborso delle spese ha il suo presupposto nello stesso comportamento dell'imputato, il quale, chiedendo l'applicazione della pena, ammette implicitamente di essere colpevole.
Nel caso portato all'attenzione di questo supremo consesso e in tutti quelli analoghi tale presupposto è rappresentato, invece, dalle pronunce già intervenute nei gradi di merito a favore della parte civile, la cui costituzione continua a produrre i suoi effetti nel giudizio di legittimità in qualsiasi forma esso si svolga. Diversamente, la regola dell'immanenza della parte civile nel processo dettata dall'art. 76/2 c.p.p. sarebbe - argomentando nel solco del ragionamento seguito dalla Consulta - completamente vanificata da un fatto, la trasmissione degli atti all'apposita sezione deputata alla declaratoria d'inammissibilità dei ricorsi, certamente non riferibile alla parte medesima, che sarebbe ingiustamente privata della facoltà d'interloquire con le conseguenze contemplate dalla legge.
Anche sotto questo diverso profilo la conclusione non può essere, dunque, che quella già imposta dalle considerazioni svolte in precedenza.
Può, pertanto, affermarsi il principio di diritto, secondo cui nel procedimento che si svolge dinanzi ala Corte di cassazione in camera di consiglio nelle forme previste dagli artt. 610, 611 c.p.p., l'imputato, il cui ricorso sia dichiarato inammissibile, è condannato al pagamento delle spese processuali in favore della parte civile, la domanda di restituzione o di risarcimento del danno della quale sia stata accolta in sede di merito ovvero non sia stata presa in considerazione dal giudice per fatto alla parte non addebitabile (art. 444 c.p.p.), purché la stessa abbia effettivamente esplicato, nei modi e nei limiti consentiti (artt. 74 ss. c.p.p.), un'attività diretta alla tutela dei propri interessi.
Per la finalità considerata, la causa dell'inammissibilità del ricorso è indifferente, perché la parte civile ha sempre il diritto di opporsi all'iniziativa dell'imputato che produce inevitabilmente l'effetto di procrastinare l'eliminazione della pendenza, creando un pericoloso ostacolo al passaggio in giudicato della decisione impugnata. E il discorso deve ritenersi valido non solo rispetto alle cause d'inammissibilità proprie del giudizio di cassazione (art. 606/3 c.p.p.), ma anche rispetto a quelle "formali" elencate dal primo comma dell'art. 591 c.p.p., potendosi in concreto determinare situazioni processuali particolari tali da giustificare pienamente il contributo offerto dalla parte civile alla loro definizione e chiarificazione.
Ciò persino nell'ipotesi di violazione da parte del ricorrente dell'art. 585 c.p.p., nella quale l'irrevocabilità della pronuncia impugnata discende direttamente dalla legge (art. 648/2 c.p.p.), essendo pur sempre necessario l'intervento, ricognitivo e certificatorio, della Corte di Cassazione per la rimozione di quello che si presenta comunque come un intralcio, non altrimenti eliminabile, alla pratica attuazione dei diritti della persona offesa costituitasi parte civile.
Ma il rilevato interesse della parte civile a ottenere sollecitamente una pronuncia definitiva è certamente configurabile anche quanto l'esame del giudice di legittimità, ai fini della verifica richiesta dall'art. 610/1 c.p.p. e in tutti i casi simili, sia circoscritto a statuizioni diverse da quelle concernenti la responsabilità dell'imputato e, in particolare, a statuizioni che attengono esclusivamente al trattamento sanzionatorio o per effetto di una scelta compiuta dall'interessato al momento della proposizione dell'impugnazione o - come nella specie - per effetto di una parziale rinuncia ai motivi originariamente enunciati.
L'affermazione, che si pone in consapevole contrasto con la prevalente giurisprudenza di questa corte di legittimità, rappresenta una naturale e logica applicazione della soluzione già data all'annosa questione della formazione progressiva del giudicato da questa Sezioni unite penali (sentenza 1/2000 - Tuzzolino), le quali, respingendo l'opinione che assimilava al caso di annullamento parziale della sentenza di merito (art. 624 c.p.p.) quello dianzi prospettato, hanno fissato il principio - ritenuto "aderente alle linee fondamentali del sistema processuale penale" - secondo cui perché la res judicanda divenga res judicata è necessario che il potere decisorio del giudice della cognizione risulti "consumato" rispetto all'intero oggetto del giudizio.
Movendo dalla distinzione, ormai pacificamente accolta e utilizzata in dottrina e in giurisprudenza per delimitare l'ambito dell'effetto devolutivo dei mezzi d'impugnazione e le situazioni processuali che consentono l'accesso al concetto di giudicato, tra capo e punto della sentenza, la pronuncia citata, chiarite le nozioni dei due elementi (ib. pag. 13-3.3), ha dimostrato con una serie di argomentazioni plausibili e convincenti, pienamente condivise dal collegio, che la cosa giudicata si forma sul capo, non sul punto, «nel senso che la decisione acquista il carattere della irrevocabilità quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni» la cui soluzione è necessaria per verificare la fondatezza delle singole accuse e condannare l'imputato alla pena di giustizia.
Tali questioni, da non confondersi con i ragionamenti sviluppati dal giudice a sostegno delle diverse disposizioni adottate, s'identificano esattamente con i "punti", di cui parla esplicitamente, peraltro, anche l'art. 597/1 c.p.p. (accertamento del fatto-reato, responsabilità, circostanze, trattamento sanzionatorio, benefici, ecc.), che non sono suscettibili di acquisire autonoma autorità di giudicato, «potendo essere oggetto unicamente della preclusione correlata all'effetto devolutivo del gravame e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni...» (ib. pag. 15-3.4).
Ne consegue che le doglianze, originarie o residue, formulate dall'imputato in relazione a "punti" distinti da quello attinente alla questione principale della colpevolezza, producendo, in ogni caso, il risultato di bloccare il processo di formazione del giudicato, fanno sorgere l'interesse della parte civile ad attivarsi per agevolare e affrettare la rimozione dell'ostacolo.
Questa conclusione e tutta la costruzione dell'istituto della res judicata, cui si aderisce, non urta contro l'interpretazione comunemente data dall'art. 624 c.p.p. (cfr. Cassazione, Sezioni Unite penali, 23 novembre 1990 - Agnese, ed altre), la cui forza precettiva, come meglio chiarisce la decisione più volte richiamata (ib. pag. 16-3.5), investe esclusivamente la specifica situazione dell'annullamento parziale e i limiti obiettivi del giudizio di rinvio, i quali sono «diretta e ineludibile conseguenza dell'irrevocabilità della pronuncia dalla Corte di cassazione in relazione a tutte le parti diverse da quelle annullate e a queste non necessariamente connesse» e non possono considerarsi in alcun modo equiparabili a quelli inerenti all'attuazione del potere dispositivo riconosciuto alle parti nella materia delle impugnazioni.
Ché, anzi, la definizione della effettiva portata della disposizione in esame descritta dalle plurime sentenze delle sezioni unite sull'argomento (ma cfr. anche Corte costituzionale ordinanza 367/1996) costituisce indirettamente una conferma dell'esattezza della tesi dell'esistenza di una reale e profonda differenza tra le nozioni di giudicato e di preclusione processuale, cui corrispondo, simmetricamente, quelle di capo e di punto della sentenza.
Non è, dunque, seriamente discutibile, riguardo al caso di specie che la parte civile "Carisap spa", nonostante la rinuncia fatta dal G. ai motivi d'appello diversi da quelli concernenti l'entità della pena irrogatagli, fosse titolare di un interesse legittimo, concreto e attuale a intervenire nel giudizio dinanzi alla Corte di cassazione. Intervento che la stessa ha effettivamente esplicato nel solo modo in cui la legge le consentiva di farlo, vale a dire presentando tempestivamente una memoria, con la quale, pur abbandonandosi prevalentemente a divagazioni attinenti al merito della condanna, che sicuramente non le competevano (parag. I), coglie, infine, il tema centrale del giudizio, avallando con osservazioni puntuali la delibazione preliminare d'inammissibilità del ricorso compiuta dal Primo Presidente e condivisa dal PG, senza trascurare di formulare le conseguenti conclusioni e presentare la nota prescritta dall'art. 153 disp. att. c.p.p.
Oltre all'adempimento degli obblighi impostigli, come s'è già visto, dall'art. 616 c.p.p., il ricorrente è tenuto, pertanto, anche a rifondere alla parte civile sopra indicata le spese sostenute nel grado, che si liquidano nella somma di mille euro comprensive degli onorari.
P.Q.M.
La Corte suprema di cassazione, Sezioni Unite penali, visti gli artt. 606, 610, 611, 616, 618 c.p.p., dichiara inammissibile il ricorso e condanna il proponente al pagamento delle spese processuali, nonché della somma di duemila euro in favore della Cassa delle ammende; lo condanna altresì a pagare alla parte civile "Carisap spa" le spese sostenute nel grado, liquidate in complessivi mille euro.