Tribunale di Latina
Decreto 10 giugno 2005, n. 3
IN FATTO
I signori G.A., nato a Latina il 5 gennaio 1965 e O.M., nato a Maracay (Venezuela) il 29 maggio 1972, entrambi di sesso maschile, in data 1° giugno 2002, contraevano matrimonio civile a L'Aja (Olanda), essendo ivi consentito il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
In data 12 marzo 2004 i predetti inoltravano al Comune di Latina - Ufficio dello stato Civile -, luogo di loro residenza, domanda di trascrizione del suddetto atto di matrimonio, ma il Comune, in considerazione della particolarità del caso, inoltrava, articolato quesito al Ministero dell'interno per conoscere se ricorressero o meno i presupposti per la trascrivibilità del matrimonio in questione.
Con atto 79764 dell'11 agosto 2004 l'ufficiale dello stato civile del Comune di Latina certificava, ai sensi dell'art. 7 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, il rifiuto della trascrizione del matrimonio in conformità del parere espresso dal ministero dell'Interno con nota del 28 febbraio 2004, per non essere previsto nel nostro ordinamento il matrimonio tra soggetti dello stesso sesso, in quanto contrario all'ordine pubblico, ai sensi dell'art. 18 del citato d.P.R.
Avverso detto rifiuto i signori G. e O. proponevano ricorso, depositato il 19 aprile 2005, innanzi al competente tribunale di Latina, ai sensi del d.P.R. 396/2000, chiedendo ordinarsi al comune di Latina e per esso al dirigente dello stato civile, la trascrizione del loro matrimonio.
A sostegno della loro richiesta i ricorrenti deducevano che nell'ordinamento italiano opera il principio del riconoscimento automatico del provvedimento straniero (artt. 65 e 66 l. 218/1995 e art. 63, punto 2, lett. c), d.P.R. 396/2000) essendo a tal fine unica condizione necessaria e sufficiente che l'atto sia stato posto in essere secondo le forme previste dalla legge straniera, e tanto risultava, nella specie, dalla copia autentica dell'atto di matrimonio celebrato all'estero.
La trascrizione dell'atto di matrimonio, proseguivano i ricorrenti, ha natura meramente certificativa e dichiarativa (Cass. 12864/1999) per cui non era consentito, in tale fase, alcuna indagine sulla sua validità o conformità all'ordine pubblico, mentre ogni eventuale impugnazione al riguardo poteva essere proposta dai soggetti legittimati solo successivamente all'avvenuta trascrizione (Cass. 1739/1999; 5537/2001).
Assumevano, infine, i ricorrenti che, in ogni caso, il matrimonio di cui chiedevano la trascrizione non era in contrasto con l'ordine pubblico internazionale, unico limite all'operatività della legge straniera, costituito dal complesso dei principi e dei valori che informano la società in un determinato periodo storico, e, pertanto, per definizione, le norme di uno stato membro della CE, non potevano essere contrarie ad alcun principio fondamentale di diritto internazionale, potendo il limite in esame valere solo per le norme di paesi extra UE.
Si costituiva il Comune di Latina contestando la fondatezza della pretesa dei ricorrenti in quanto, nell'ordinamento italiano, l'unico matrimonio riconosciuto è quello tra persone di sesso diverso, come sancito dall'art. 29 Cost., e, pertanto, il matrimonio tra persone dello stesso sesso è contrario all'ordine pubblico interno e legittimo, quindi, è stato il rifiuto alla sua trascrivibilità ex art. 18 d.P.R. 396/2000.
La difesa del Comune deduceva, infine, quale ulteriore assorbente motivo per il rigetto della richiesta dei ricorrenti, che nel nostro ordinamento, l'unione tra persone dello stesso sesso, non è nullo, ma semplicemente inesistente, per difetto dei requisiti minimi stabili dalle norme del codice civile (Cass. 7877/2000), e, pertanto, ciò costituiva insuperabile impedimento alla trascrivibilità del loro matrimonio.
Si costituiva altresì il sindaco del Comune di Latina, in qualità di ufficiale del Governo, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, eccependo che il ricorso era stato irritualmente notificato all'ufficiale dello stato civile, laddove la competenza esterna e la legittimazione processuale in materia di stato civile spetta al sindaco in qualità di ufficiale di Governo a norma del testo unico sugli enti locali.
Nel merito l'Avvocatura deduceva la legittimità del rifiuto di trascrizione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, in quanto incompatibile con i principi dell'ordine pubblico interno (art. 18 d.P.R. 396/2000), riconoscendo il nostro ordinamento (art. 29 della Cost.) solo il matrimonio incentrato sulla diversità di sesso dei coniugi.
Interveniva in giudizio il procuratore della Repubblica di Latina che, premessa la distinzione tra ordine pubblico interno ed ordine pubblico internazionale, e ritenuto solo quest'ultimo quale limite al funzionamento della norma di diritto internazionale privato, concludeva per il rigetto dell'istanza dei ricorrenti in quanto nella specie risultavano violati i principi dell'ordine pubblico internazionale, tra i quali andavano annoverati quelli fondamentali della carta costituzionale (artt. 29 ss. Cost.), in virtù dei quali unico matrimonio ammissibile è quello tra soggetti di sesso diverso.
Dopo scambio di memorie autorizzate ed ampia discussione orale, la causa era trattenuta in decisione all'udienza del 19 maggio 2005.
IN DIRITTO
La questione processuale sollevata dall'Avvocatura dello Stato di irregolarità della notifica per essere stata effettuata al dirigente dell'ufficio dello Stato civile anziché al sindaco quale ufficiale di governo, unico soggetto fornito di legittimazione processuale in materia di stato civile, è superata dalla costituzione in giudizio del sindaco nella suddetta qualità, risultando così sanata la relativa nullità per avere l'atto raggiunto il suo scopo (art. 156, comma 3, c.p.c.).
Deve anche ritenersi superata la nullità per la irrituale vocatio in ius dell'ufficiale dello Stato civile invece del sindaco nella qualità, perchè ogni incertezza al riguardo per violazione dell'art. 163, n. 2, c.p.c., è risultata sanata, ex art. 164, comma 3, c.p.c., con la costituzione dell'effettivo soggetto destinatario dell'atto.
Venendo al merito, per una corretta soluzione delle questioni che ci occupano, giova chiarire che il legislatore del 1942 non ha fornito una esplicita definizione del matrimonio e, pertanto, la nozione va ricostruita dall'interprete desumendola dal complesso normativo che disciplina l'istituto in esame.
In verità, a parte la famosa definizione del matrimonio risalente alle fonti romane (nuptiae sunt coniunctio maris et feminae, consortium omnis vitae, divini et umani iuris communicatio), nel disegno di legge volto alla riforma del diritto di famiglia (poi l. 19 maggio 1975, n. 151), era stato proposto l'introduzione di un art. 83-bis, intitolato «costituzione del matrimonio» ed era così formulato: «Il matrimonio si costituisce con la volontà, legittimamente espressa davanti ad un competente ufficiale dello stato civile di un uomo e di una donna, che abbiano i requisiti fissati dalla legge, di prendersi reciprocamente in marito e moglie» (proposta approvata dalla quarta commissione permanente (giustizia) della Camera dei deputati il 18 ottobre 1972, in atti parlamentari sen. - doc. 550).
Tuttavia, come innanzi detto, né il legislatore del 1942 né quello del 1975 hanno fornito la definizione del matrimonio e, dunque, soccorrono al riguardo le singole disposizioni in materia e specificamente quelle sulla costituzione e validità del vincolo e sui suoi effetti.
In tema, vengono innanzitutto in rilievo le norme costituzionali tra cui nello specifico l'art. 29, che, testualmente, così recita: «La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio»; da ciò discende, con riferimento all'art. 2 Cost. il riconoscimento dell'esigenza fondamentale dell'uomo di realizzarsi nella comunità familiare, quale formazione sociale, fondamentale e preesistente, in cui si realizza la personalità dei singoli.
Orbene, quali che possano essere le critiche alla formula adottata dal costituente (ma il compito dell'interprete non è di critica, ma di comprensione della norma) che con l'attributo naturale sembra voler configurare la possibilità di istituti di diritto naturale e non diritto positivo, quello che rileva, ai fini che qui interessano, è che il costituente, nel riconoscere «i diritti della famiglia come società naturale», ha inteso far riferimento al tradizionale rapporto di coniugio tra soggetti appartenenti a sesso diverso, secondo una concezione, che prima ancora che nella legge, trova il suo fondamento nel sentimento, nella cultura, nella storia della nostra comunità nazionale e tale principio, confermato anche dalle disposizioni in materia della legge ordinaria (artt. 89, 143-bis, 156-bis, 231, 235, 262 c.c.), deve ritenersi abbia assunto valenza costituzionale.
Alla luce di quanto precede deve allora concludersi che elemento essenziale per poter qualificare nel nostro ordinamento la fattispecie «matrimonio» è la diversità di sesso dei nubendi ed in tal senso si è pronunciata la Cassazione che nel distinguere in subiecta materia la categoria dell'inesistenza da quella della nullità, ha precisato che ricorre l'ipotesi dell'inesistenza quando manchi quella realtà fenomenica che costituisce la base naturalistica della fattispecie, individuandone i requisiti minimi essenziali nella manifestazione di volontà matrimoniale resa da due persone di sesso diverso davanti ad un ufficiale celebrante (Cass. 7877/2000; 1304/1990; 1808/1976).
D'altronde non è senza ragione che, nel nostro codice civile, tra gli impedimenti al matrimonio (quali età, capacità, libertà di stato, parentela, delitto - artt. 84, 86, 87, 88 c.c.), non è prevista la diversità di sesso dei coniugi e ciò ovviamente non perché tale condizione sia irrilevante, bensì perché essa, a differenza dei semplici impedimenti, incide sulla stessa identificazione della fattispecie civile che, nel nostro ordinamento, possa qualificarsi «matrimonio».
Traendo le necessarie conclusioni dalle esposte premesse deve allora affermarsi la legittimità del rifiuto dell'ufficiale dello stato civile di accogliere l'istanza dei ricorrenti, per l'assenza dei requisiti minimi essenziali che consenta di inquadrare la fattispecie in esame nella stessa previsione legale «matrimonio», presupposto questo indefettibile per la trascrizione, essendo venuto meno quel collegamento funzionale con l'ordinamento straniero, condizione indispensabile per rendere accettabile l'atto nel nostro ordinamento.
Sia ben chiaro (e la precisazione sembra opportuna per la delicatezza del caso) che il discorso fin qui svolto è solo rigorosamente giuridico e risponde alla ricostruzione dell'istituto matrimonio secondo la normativa vigente, ma non implica alcun giudizio di valore sulla ammissibilità e dignità dell'unione in esame.
Per la stessa ragione è infondata la doglianza della difesa dei ricorrenti che ha ritenuto offensive, chiedendone la cancellazione ex art. 89 c.p.c., le espressioni usate dalla difesa del Comune di Latina che, in relazione ai principi esplicitati dall'art. 29 Cost., ha argomentato che l'ordine pubblico interno tende a salvaguardare quella identità storica e culturale di una società nazionale che, nel caso dello Stato italiano, passa attraverso la c.d. società naturale, per indicare quell'imprescindibile legame della famiglia e della nazione con la natura dell'uomo, essendo evidente che le frasi contestate si giustificano nell'ambito del legittimo esercizio del diritto di difesa, riguardando la sola valutazione giuridica del caso, senza alcun intento offensivo nei confronti dei ricorrenti.
Le conclusioni innanzi esposte, per il loro carattere assorbente, renderebbero superfluo l'esame di ogni altra questione, tuttavia, per completezza di indagine, appare opportuno esaminare anche gli altri motivi prospettati dai ricorrenti a sostegno della loro tesi.
Al riguardo, come già accennato nella parte espositiva, i ricorrenti hanno dedotto che nel nostro ordinamento opera il principio del riconoscimento automatico del provvedimento straniero per cui l'atto, specie quelli provenienti dagli Stati dell'Unione europea, devono essere trascritti senza ulteriore controllo, salvo la verifica che l'atto sia stato compiuto secondo le forme previste dalla legge straniera sulla base del principio locus regit actum, requisito comprovato nella specie dalla produzione della copia autentica dell'atto di matrimonio celebrato in Olanda.
Inoltre la difesa dei ricorrenti, con ulteriore motivo, ha argomentato che la trascrizione sarebbe un atto dovuto atteso che tale adempimento non ha natura costitutiva, ma meramente dichiarativa e certificativa, a scopo di pubblicità, e, pertanto, ogni eventuale questione di invalidità al riguardo, potrebbe essere fatta valere solo mediante impugnazione dell'atto da parte dei soggetti legittimati per uno dei motivi di cui all'art. 117 c.c. (Cass., 5537/2001; 1739/1999).
Entrambi i motivi, da esaminarsi congiuntamente per la loro intima connessione logica e giuridica, non appaiono fondati.
Quanto al primo giova innanzitutto premetter che non esiste alcun trattato, convenzione europea, regolamento comunitario o norma di diritto internazionale che impongano l'automatico riconoscimento di atti formati all'estero; tantomeno un tale principio può rinvenirsi nella recente Costituzione europea, sottoscritta a Roma il 29 ottobre 2004 e ratifica dalla Stato italiano con l. 7 aprile 2005, n. 57, peraltro non ancora in vigore essendo subordinata alla ratifica degli stati aderenti.
In contrario si osserva che in tema di decisioni in materia matrimoniale, da applicarsi in via analogica alla fattispecie in esame, è sancito il principio opposto essendo precluso il riconoscimento della decisione quando è «manifestamente contrario all'ordine pubblico dello Stato membro richiesto» (v. artt. 22 e 23 regolamento CE 2201/2003). Applicazione di tale principio si rinviene altresì negli artt. 16, 64 e 65 della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato 218/1995, che subordinano il riconoscimento dei provvedimenti stranieri in materia di stato, capacità delle persone ed all'esistenza di rapporti di famiglia, alla loro non contrarietà all'ordine pubblico italiano. Nel caso specifico va poi ricordato l'art. 18 del d.P.R. 396/2000, cui ha fatto espresso riferimento l'ufficiale dello Stato civile nel motivare il proprio rifiuto, che testualmente dispone: «gli atti formati all'estero non possono essere trascritti se sono contrari all'ordine pubblico».
Infine, in applicazione dei suddetti principi, sebbene quale fonte normativa secondaria, va richiamata la circolare del Ministero dell'interno 2/2001, che ha ritenuto non trascrivibile il matrimonio celebrato all'estero tra omosessuali, in quanto contrario alle norme di ordine pubblico. Per completezza si osserva ancora in dissenso con la tesi del riconoscimento automatico, che anche i regolamenti comunitari, che quale fonte di diritto primario prevalgono sulle norme ordinarie degli Stati membri, con essi incompatibili, trovano comunque un limite alla loro applicabilità, ove siano in contrasto con i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale e con i diritti inalienabili della persona umana (Corte cost. 170/1984; 47 e 48 del 1985; 232/1989).
Le esposte argomentazioni fanno anche giustizia della tesi di cui all'altro motivo secondo cui la trascrizione sarebbe atto dovuto stante la natura meramente dichiarativa di tale adempimento.
Tuttavia al riguardo la questione merita ulteriore approfondimento e giova innanzitutto chiarire che le sentenze della Cassazione richiamate in materia si riferiscono a fattispecie del tutto diverse da quella in esame (espulsione di straniera la prima - sentenza 5537/2001 - e questioni ereditarie la seconda - sentenza 1739/1999) ed entrambe relative a matrimoni già trascritti. In ogni caso la stessa Suprema Corte, in altre sentenze (Cass. 9578/1993; 10351/1998), nega un automatico riconoscimento degli atti formati all'estero secondo la lex loci, subordinando tale effetto all'ulteriore condizione che sussistano i requisiti sostanziali relativi «allo stato ed alla capacità delle persone previsti nel nostro ordinamento».
Quanto alla natura della trascrizione dell'atto di matrimonio va osservato che certamente tale formalità non ha natura costitutiva in quanto il matrimonio si perfeziona con il consenso dei nubendi (di sesso diverso) reso davanti alla competente autorità, e non è quindi elemento essenziale della fattispecie in quanto non incide sul momento genetico del rapporto, tuttavia incide sul suo momento funzionale (e, pertanto, non può ad essa attribuirsi una mera natura dichiarativa o di pubblicità notizia) e ciò in quanto, solo a seguito della trascrizione, si producono nell'ordinamento gli effetti civili del matrimonio, sia di natura patrimoniale che personale, con attribuzione di un vero e proprio status di coniuge, ragione questa, certamente non ultima, del presente procedimento.
In tema, sebbene con riferimento a fattispecie diversa, ma che presenta analogie con la questione in esame, viene in rilievo la norma dell'art. 8 dell'accordo di revisione del concordato del 1929 con la Santa Sede, stipulato il 18 febbraio 1984 e reso esecutivo con l. 25 marzo 1985, n. 121, la quale nel disporre che gli effetti civili del matrimonio contratto secondo le norme del diritto canonico sono riconosciuti a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, attribuisce alla detta trascrizione, carattere di elemento essenziale per l'attribuzione di tali effetti, con la conseguenza che la nullità della trascrizione medesima comporta l'inefficacia civile del matrimonio concordatario (Cass. 8312/2001). Vero è che, nella specie, vi è una espressa disposizione (art. 8 cit.) che subordina gli effetti civili del matrimonio canonico alla trascrizione, tuttavia, a ben guardare, anche per gli altri matrimoni ed in particolare per quelli celebrati all'estero, con le norme di un altro ordinamento, pur in difetto di una specifica disposizione al riguardo, quanto agli effetti, l'analogia con la situazione sopra esaminata non appare fondatamente contestabile.
Escluso, dunque, ogni automatismo alla trascrizione del matrimonio, occorre allora esaminare l'ultima questione ossia se il matrimonio tra persone dello stesso sesso sia o meno in contrasto con i principi di ordine pubblico, condizione questa, come innanzi è stato osservato, perché possa procedersi al riconoscimento dell'atto nel nostro ordinamento.
Al riguardo il collegio condivide la tesi secondo cui l'ordine pubblico in esame non si identifica con il cosiddetto ordine pubblico interno - e cioè con qualsiasi norma imperativa dell'ordinamento civile - bensì con quello di ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali e caratterizzanti l'atteggiamento etico-giuridico dell'ordinamento in un determinato periodo storico (Cass. 17349/2002; 13928/1999). Proprio la sua relatività storica, unitamente all'assenza di una qualsiasi, seppure implicita, definizione normativa rende la nozione in esame tra le più controverse, sotto il profilo della determinatezza, tuttavia un valido criterio per individuare il limite in esame è desumibile innanzitutto con riferimento ai principi fondamentali della carta costituzionale nonché in quelle regole inderogabili, immanenti, ai più importanti istituti giuridici dell'ordinamento.
Ciò precisato va subito smentito l'assunto dei ricorrenti secondo cui, per definizione, le norme di uno Stato membro della CE non possono essere contrarie ai principi fondamentali dell'ordine pubblico internazionale.
In contrario si osserva che, se così fosse, non avrebbero ragion d'essere le norme, già ripetutamente citate, sia di diritto internazionale (artt. 22 e 23 del regolamento CE 2201/2003) sia di diritto interno (artt. 64 e 64 l. 218/1995 e art. 18 d.P.R. 396/2000) che pongono il limite dell'ordine pubblico, come sopra precisato, al riconoscimento delle decisioni e dei provvedimenti degli Stati membri della CE.
Certamente la verifica di tale limite deve essere particolarmente rigoroso, contenuto ai soli casi in cui l'atto da riconoscere contrasti in modo inaccettabile con l'ordinamento giuridico dello Stato richiesto, in quanto lesivo di un principio fondamentale, tuttavia ciò non comporta l'automatico riconoscimento degli atti dello Stato estero atteso che l'omogeneità degli ordinamenti rappresenta una linea di tendenza, al fine di pervenire, per quanto è possibile, ad un unico ordinamento europeo, ma al momento, specie in alcune materie, quale il diritto di famiglia, più legate ai valori ed alla storia di ciascun paese, non può certo affermarsi che si sia pervenuti ad una legislazione da tutti condivisibile.
Alla luce delle esposte premesse la risposta al quesito postoci appare allora abbastanza agevole in quanto, allo stato dell'evoluzione della società italiana, il matrimonio tra persone dello stesso sesso contrasta con la storia, la tradizione, la cultura della comunità italiana, secondo una valutazione recepita dal legislatore e trasfusa nelle norme di legge, sia di rango costituzionale sia ordinarie, già ripetutamente richiamate, di cui il giudice deve essere solo fedele interprete, indipendentemente dalle sue convinzioni personali, e che nessuna interpretazione evolutiva, pure ove fosse in sintonia con il comune sentire, potrebbe, oltre certi limiti, superare.
D'altronde anche nell'ambito degli stati membri della CE il riconoscimento del matrimonio omosessuale rappresenta l'eccezione per cui non può certamente dirsi che una novità normativa di tale rilievo possa ritenersi tranquillamente accettata ed anzi proprio la singolarità di tale legislazione la pone non in linea con i principi condivisi di diritto internazionale.
Diversa è naturalmente l'ipotesi che va facendosi strada di introduzione di patti di solidarietà o di istituti simili, diretti a riconoscere e tutelare unioni caratterizzate da stabilità, tra persone che siano o meno dello stesso sesso, tuttavia ogni modifica al riguardo non può, ovviamente, essere perseguita per via giudiziaria essendo riservata alla sfera di competenza del legislatore.
In ultimo i ricorrenti hanno anche obiettato che il mancato riconoscimento del loro matrimonio sarebbe causa di gravi inconvenienti ed incongruenze potendosi verificare, sebbene in ipotesi del tutto teorica, di vedere preclusa la possibilità di avvalersi degli istituti della separazione e del divorzio ed inoltre, sempre per il mancato riconoscimento, potrebbero legittimamente sposarsi in Italia con persona di altro sesso, incorrendo nel reato di bigamia in Olanda.
Al riguardo si osserva innanzitutto che gli istanti sono i meno legittimati a dolersi dei prospettati inconvenienti essendo questi conseguenza di una loro consapevole scelta, ben sapendo dell'impossibilità del matrimonio tra omosessuali in Italia e, conseguentemente, ben sapendo, dell'impossibilità o, quantomeno, della problematicità, del successivo riconoscimento della loro unione nel nostro ordinamento.
In secondo luogo i problemi prospettati (come peraltro si verifica in altri casi), sono conseguenza di un mancato coordinamento di norme a livello di diritto internazionale, ma la soluzione non può, ovviamente, essere rappresentata da una sorta di rinuncia dello Stato italiano alla propria sovranità, precludendosi di legiferare in materia nell'ambito del proprio ordinamento, specie quando è l'ordinamento straniero che non si è posto alcun problema di celebrare un matrimonio tra cittadini di altro Paese nel cui ordinamento quell'unione non era ammessa.
In conclusione, alla luce di tutte le svolte considerazioni, il proposto ricorso deve essere rigettato e, tuttavia, per quanto concerne le spese del presente procedimento, la particolarità e novità delle questioni trattate, induce il collegio a dichiararle interamente compensate tra tutte le parti.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e compensa le spese.
Note
La presente decisione è stata confermata da Corte d'appello di Roma, decreto 13 luglio 2006.