Corte dei conti
Sezione III giurisdizionale centrale
Sentenza 28 settembre 2005, n. 566

FATTO

Con atto di citazione in data 27 maggio 2003 la Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale per il Piemonte conveniva in giudizio il dott. Luigi O. e l'ing. Aldo R. per sentirli condannare al pagamento, in favore dell'Azienda sanitaria ospedaliera San Giovanni Batista "Molinette" di Torino, della somma di euro 500.000,00 (o di quella diversa eventualmente risultante in corso di causa) maggiorata di rivalutazione monetaria, interessi legali e spese di giudizio. La richiesta scaturiva dalla grave lesione all'immagine dell'Amministrazione presso la quale i due convenuti prestavano servizio, il primo quale direttore generale e il secondo quale responsabile dell'Ufficio tecnico, con notevole discredito e perdita di prestigio della personalità pubblica, conseguente alla condotta criminosa da essi posta in essere attraverso la percezione illecita di somme di denaro da parte di imprenditori privati.

La Procura procedente, avendo previamente invitato i presunti responsabili a depositare le proprie deduzioni e gli eventuali documenti ritenuti utili alla propria difesa ed avendo contestualmente richiesto (ed ottenuto) il sequestro conservativo di beni e somme di loro pertinenza, li ha successivamente citati in giudizio, ritenendo insufficienti le contrarie argomentazioni dai medesimi formulate, contestando loro di avere essi stessi ammesso, sia pure con qualche iniziale reticenza, di avere ricevuto somme di denaro dell'ordine di centinaia di milioni da imprese e professionisti che intrattenevano rapporti di lavoro con l'Ospedale. L'atto di citazione indica quindi, nel dettaglio, le tangenti riscosse, quali risultanti dai verbali d'interrogatorio dei due convenuti dinanzi al Pubblico Ministero penale, dalle quali è derivato, ad avviso della Procura procedente, oltre un probabile pregiudizio sotto l'aspetto economico (per il quale si fa riserva di procedere separatamente), un sicuro pregiudizio all'immagine dell'amministrazione, che costituisce esso stesso danno autonomamente risarcibile, atteso che il prestigio della pubblica amministrazione è un interesse direttamente protetto dall'ordinamento. In proposito, si fa riferimento in citazione ai principi fissati dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con una recente pronuncia su questione di massima (sentenza n. 10/2003/QM del 12 marzo/23 aprile 2003), dalla quale si desumono altresì i parametri per la quantificazione di tale tipo di danno, individuabili in elementi oggettivi, soggettivi e sociali, nonché nello stesso clamor fori e nella risonanza data dai mezzi d'informazione, che, se non integrano la lesione, sicuramente contribuiscono a definirne la dimensione.

L'impianto accusatorio sul quale si regge l'atto di citazione è stato integralmente condiviso dal primo giudice, che, disattese le difese opposte dai convenuti, li ha condannati al pagamento, in solido, dell'importo complessivo di euro 113.620,52 di cui euro 77.468,53 a carico dell'O. ed euro 36.151,98 a carico del R., oltre interessi, rivalutazione e spese di giudizio.

I primi giudici, in particolare, hanno respinto le eccezioni preliminari in rito, di inammissibilità dell'azione promossa dalla Procura regionale in assenza di sentenza penale irrevocabile di condanna e di inefficacia del provvedimento cautelare per mancata notifica dell'ordinanza di conferma del sequestro conservativo, rilevando che l'interpretazione "preclusiva" dei convenuti, già contrastata nell'atto di citazione, "equivarrebbe alla reintroduzione nell'ordinamento - sostanzialmente - del principio della pregiudizialità penale nel giudizio contabile", viceversa espunto dal sistema e che "l'asserita inefficacia del provvedimento cautelare non si riverbera nel merito e non determina l'inefficacia dell'atto di citazione" per la diversa natura dei rispettivi procedimenti.

Nel merito, ribadito il principio in base al quale il giudice contabile può ricavare dal procedimento penale elementi di valutazione utili ai fini del proprio convincimento e che gli atti compiuti dal Pubblico ministero penale e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto istruttorio fino a quando l'indagato non ne è venuto a conoscenza (il che, nella specie, è avvenuto con l'arresto in flagranza del 19 dicembre 2001), il giudice di prime cure ha ritenuto che gli elementi di prova prodotti dalla Procura procedente, ricavati dal procedimento penale in corso, convincono della sussistenza della vicenda illecita, nonché del discredito e della perdita di prestigio derivati in danno dell'Azienda sanitaria ospedaliera "Molinette" di Torino. La vicenda corruttiva che portò all'arresto dei convenuti, infatti, "comportò oltre ad un periodo, sia pure limitato di due mesi, di gestione commissariale, con attività limitata all'ordinaria amministrazione, l'istituzione di una commissione consiliare d'inchiesta su tutte le ASL e ASO piemontesi, nonché la necessità di riorganizzazione e riconversione dei servizi, la ricerca di professionalità adeguate per la sostituzione di cariche di prestigio e particolarmente delicate come quelle occupate dagli odierni convenuti" (oggi appellanti); tale vicenda ebbe inoltre ripercussioni significative sull'opinione pubblica, "sia a livello regionale dove O. in particolare era un personaggio noto e sia a livello nazionale, per il risalto che assumono le vicende di mala sanità".

La Sezione territoriale non ha viceversa condiviso la quantificazione del danno operata dalla Procura, sulla base, essenzialmente, delle tangenti percepite (da lire 544 a 627 milioni di lire, peraltro in via meramente indicativa) ed ha quindi ridotto l'ammontare della condanna nei termini sopra specificati, fermo restando il vincolo della solidarietà per i compartecipi che hanno agito con dolo, ai sensi dell'articolo 1-quinquies della legge n. 20 del 1994, come modificato dall'articolo 3 della legge 20 dicembre 1996, n. 639.

Avverso la sentenza hanno proposto appello il R. e l'O., deducendo: A) il primo, l'insussistenza probatoria dei fatti, l'insussistenza di un danno all'immagine e comunque la sua erronea quantificazione, l'esclusione di una responsabilità solidale; B) il secondo, la preclusione dell'azione contabile in assenza si sentenza penale irrevocabile di condanna, l'inefficacia dell'atto di citazione per mancata notifica dell'ordinanza di conferma del sequestro, l'insussistenza del danno all'immagine e comunque l'erronea quantificazione dello stesso.

In particolare, l'appellante R. ha rilevato che gli elementi probatori acquisiti dal Procuratore della Repubblica costituiscono, in realtà, materiale preparatorio rispetto all'attività dibattimentale, nel corso della quale essi debbono essere necessariamente confermati: fino a quando ciò non avvenga, quegli elementi, che non costituiscono fonte di prova nel processo penale, non possono essere utilizzati come tali neppure nel giudizio contabile o di responsabilità amministrativa, potendo al più valere come semplici elementi di stimolo per una nuova ed autonoma attività istruttoria, che nel caso di specie è completamente mancata. A diversamente opinare si perverrebbe all'assurdo che "gli elementi di prova raccolti nel processo penale, e che in quel processo non sarebbero rilevanti e decisivi, diventano rilevanti e decisivi in un diverso processo, nel quale nessuna attività istruttoria autonoma è stata esperita".

L'appellante contesta poi la stessa sussistenza del danno all'immagine, che, ricollegandosi non tanto al comportamento delittuoso quanto alla risonanza del medesimo, è attualmente in fieri, in quanto solo la conclusione del processo penale e l'esito che esso avrà potrà determinarne, attraverso la rappresentazione che gli organi di stampa forniranno di tale conclusione, l'effettiva dimensione. A tal riguardo non può infatti disconoscersi, a suo avviso, che la risonanza sugli organi di informazione di un qualsiasi evento dipende da una molteplicità di elementi contingenti, per lo più estranei alla volontà dell'incolpato (scelte editoriali, clima del momento, esistenza o meno di notizie concorrenti) e che, nel caso di specie, vertendosi in ipotesi di danno riconducibile all'attività di impiegati amministrativi o tecnici, esso incide in misura poco significativa sull'immagine di un ospedale, che si fonda, in misura prevalente, sulla qualità delle cure prestate e non già sulla regolarità e tempestività nel pagamento dei corrispettivi dovuti.

Lo stesso disservizio evidenziato in sentenza non si sarebbe in effetti concretamente verificato, perché l'assenza dell'ing. R. "non ha creato problema alcuno, posto che l'ufficio tecnico è dotato di numerosi altri dirigenti di identico livello", mentre, "per quanto riguarda il direttore generale, il medesimo è stato sostituito nel giro di pochi giorni".

L'appellante evidenzia infine la sproporzione dell'ingente somma richiesta, a fronte della sua ridotta partecipazione ai fatti contestati e lamenta in particolare l'applicazione del vincolo della solidarietà, con sostanziale equiparazione tra i due convenuti, che non troverebbe nel caso di specie giustificazione, in considerazione della netta distinzione dei ruoli tra il direttore generale e uno dei tanti dirigenti dell'ufficio tecnico: a tale proposito, richiamato anche il principio di personalità della responsabilità amministrativa ed il diverso regime in tema di trasmissibilità del debito agli eredi, la parte solleva questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1-quinquies della legge 14 gennaio 1994, n. 20.

Conclusivamente, l'appellante R. ribadisce che "i fatti contestati sono riferiti ad episodi qualificabili in termini di corruzione impropria, per i quali nessun danno materiale è stato risentito dall'Amministrazione", chiedendo, pertanto, la piena assoluzione dagli addebiti mossi ovvero, in via subordinata, che il danno sia ripartito in misura più equa tra i compartecipi, tenendo conto del differente rapporto tra le parti.

L'appellante incidentale O. ha riproposto le argomentazioni già svolte nel giudizio di primo grado, ribadendo innanzitutto che la legge n. 97 del 2001, che disciplina i rapporti tra il procedimento penale e quello disciplinare e gli effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, è oggi pienamente in vigore e giustifica pienamente l'interpretazione "preclusiva" in luogo di quella "estensiva" della Corte, in quanto è volta a garantire l'applicazione concreta di principi fondamentali quali quello del diritto alla difesa e della certezza del diritto.

L'appellante ha poi contestato l'affermazione della tutelabilità dell'immagine e del prestigio della pubblica amministrazione anche in assenza di sentenza penale irrevocabile di condanna, quale corollario della teoria del danno-evento e della violazione di diritti garantiti a livello costituzionale, ribadendo che "il diritto al risarcimento del danno all'immagine della pubblica amministrazione rientra nella previsione dell'articolo 2059 c.p. e 185 c.p. ed è conseguentemente subordinato alla sussistenza di un fatto-reato che, ad oggi, non è stato compiutamente accertato; ha inoltre sostenuto che il procedimento di sequestro e quello di merito introdotto con l'atto di citazione hanno la medesima finalità, evidenziando come "la Procura, dando inizio alla fase di merito - pur nel rispetto dei termini di legge - senza aver notificato l'ordinanza di conferma del provvedimento cautelare si sia assicurata una vera e propria esecuzione anticipata della sentenza di merito, impedendo al convenuto di svolgere le proprie difese ed esponendolo a gravi conseguenze patrimoniali.

L'appellante rileva ancora vizi di motivazione della sentenza anche nel merito, sia con riferimento all'an debeatur (erronea attribuzione di responsabilità esclusiva a carico dei convenuti, sulla base di un libero apprezzamento di soli indizi, per giunti mai verificati in contraddittorio; mancata valutazione del concorso di responsabilità di altri soggetti e segnatamente di coloro che, attraverso la "spettacolarizzazione della notizia" hanno divulgato per finalità varie, ivi comprese quelle palesemente denigratorie verso l'odierno convenuto, notizie coperte dal "segreto istruttorio", con ciò violando ogni diritto di riservatezza dell'indagato) che con riferimento al quantum debeatur (nell'effettuazione della valutazione equitativa ex art. 1226 c.c. i criteri di determinazione del danno enunciati in astratto sono stati applicati in concreto in modo assolutamente parziale e soggettivo, in quanto la somma "potenzialmente" percepita dal dott. O. ammonta al massimo a circa 149 milioni - somma per la quale, peraltro, non è intervenuto un accertamento del fatto-reato ai sensi dell'art. 2059 c.c. e 185 c.p. e non vi è prova di illiceità del fatto e di danno ingiusto ai sensi dell'articolo 2043 c.c. - e non a quasi 600 milioni di vecchie lire, come evidenziato in citazione.

Conclusivamente l'appellante chiede il suo totale proscioglimento e, in via subordinata, la riduzione nella misura massima possibile della quantificazione della somma posta a suo carico.

Anche la Procura generale, nel controdedurre ai motivi d'appello con argomenti in massima parte mutuati dall'atto di citazione e dalla motivazione della sentenza impugnata, ritiene, tuttavia, che sussistano motivi di gravame avverso la stessa sentenza, relativamente alla determinazione del quantum di condanna posto a carico del R. e dell'O.: la determinazione è infatti avvenuta sulla base del solo criterio oggettivo relativo all'entità delle tangenti e non anche con riferimento ai criteri soggettivo (in relazione, cioè, al tipo di servizio prestato) e sociale (basato sulla ripercussione suscitata nell'opinione pubblica).

La Procura, nel chiedere la reiezione degli appelli delle parti private, ha quindi chiesto la loro condanna al pagamento in favore dell'Amministrazione danneggiata della somma di cui all'atto di citazione, oltre che la condanna al pagamento delle spese di giudizio del doppio grado.

In data 14 febbraio 2005 è pervenuta una memoria difensiva dell'appellante incidentale dott. Luigi O., con la quale, in replica alle argomentazioni della Procura generale, si ripropongono considerazioni già svolte in precedenza, con ulteriori specificazioni.

Nella pubblica udienza odierna, dopo l'esposizione del relatore, è per primo intervenuto l'avvocato Romano, il quale si è sostanzialmente riportato a tutti i motivi di gravame diffusamente illustrati nell'atto scritto, soffermandosi in particolare sulla posizione del suo assistito, abbastanza marginale rispetto a quella preminente del direttore generale e comunque inserita in un contesto operativo in cui non sussistono margini di manovra per influire sull'anticipato pagamento di corrispettivi, che avrebbe giustificato le dazioni di denaro dei privati imprenditori.

È quindi intervenuto l'avvocato Paganelli, il quale, nel riportarsi a sua volta ai motivi d'appello enunciati nel ricorso, ha sottolineato la circostanza che il suo assistito è attualmente occupato presso l'amministrazione pubblica nel medesimo settore sanitario, a riprova della rinnovata fiducia nei suoi confronti e dell'intervenuto superamento del danno all'immagine eventualmente prodotto dal suo operato.

È da ultimo intervenuto il Pubblico Ministero, che, nel ribadire le contrarie deduzioni svolte nell'atto conclusionale scritto avverso le argomentazioni difensive degli appellanti, ha confermato il fondamento dell'azione proposta e la correttezza della statuizione di condanna cui il primo giudice è pervenuto, contestandone peraltro l'ammontare, determinato con esclusivo riferimento all'importo delle somme che gli stessi convenuti hanno ammesso di avere percepito.

DIRITTO

Il collegio, disposta in via preliminare la riunione degli appelli, perché gli stessi, proposti separatamente avverso la medesima sentenza, debbono confluire in un unico processo per essere definiti con pronuncia unica (art. 335 c.p.c.), rileva innanzitutto che, come già evidenziato nell'esposizione in fatto, la Procura regionale ha promosso l'azione di responsabilità amministrativa nei confronti degli odierni appellanti per il solo danno non patrimoniale da essi prodotto all'immagine dell'amministrazione di appartenenza, ravvisandone la rilevanza anche sotto il profilo patrimoniale e quantificandone l'ammontare in misura pressoché corrispondente all'importo delle illecite somme da essi percepite; e ciò, sulla base essenzialmente delle risultanze dei verbali degli interrogatori cui gli indagati vennero sottoposti dopo l'arresto, avvenuto in flagranza di reato, nell'ambito di un procedimento penale, peraltro non ancora pervenuto alla fase dibattimentale.

Gli appellanti, condannati in prime cure, contestano in radice l'azione nei loro confronti proposta, sotto un duplice profilo: l'inammissibilità di una qualsiasi azione di responsabilità per fatti oggetto di indagine penale prima della definitiva conclusione di quel procedimento, con sentenza definitiva ed irrevocabile, nonché l'inconfigurabilità di un'azione per danno all'immagine, disgiunta dall'accertamento di un qualsivoglia danno patrimoniale contestualmente arrecato all'ente. Nello specifico, contestano comunque che il danno in questione (che a loro avviso avrebbe natura di danno morale, ex art. 2059 c.c. e 185 c.p.) sia stato prodotto, che la prova di tale danno sia stata offerta e che, infine, la sua quantificazione sia stata eseguita correttamente, risultando la determinazione quantitativa operata dal primo giudice sproporzionata al danno prodotto, ove anche ritenuto sussistente.

La Procura generale resistente, che contesta tutti i profili sopra evidenziati, concorda (per motivi opposti a quelli degli appellanti) sul motivo inerente la quantificazione del danno, chiedendone, con appello incidentale, la rideterminazione nei termini originariamente prospettati dalla Procura regionale procedente.

La prima questione da esaminare, alla stregua dei prospettati motivi di gravame, è dunque quella della proponibilità dell'azione di responsabilità amministrativa in pendenza di procedimento penale, ancora non pervenuto a pronuncia definitiva ed irrevocabile ed anzi, nel caso di specie, neppure formalmente introdotto con rinvio a giudizio degli indagati.

Sul punto deve rilevarsi che nell'assetto normativo del nuovo codice penale, al previgente criterio della pregiudizialità che disciplinava in passato i rapporti tra il procedimento penale e quello amministrativo contabile, è stato sostituito quello della netta separatezza o separazione tra i due giudizi (correttamente richiamato dal primo giudice), salva restando la sola preliminare verifica (questa, si, necessaria) dell'eventuale improcedibilità dell'azione di responsabilità amministrativa, in presenza di un giudicato penale sui medesimi fatti oggetto di entrambi i giudizi: ipotesi che nel caso in esame non ricorre, come già rilevato.

In altri termini, la regola generale è oggi quella della piena autonomia della giurisdizione contabile rispetto a quella penale, con il solo limite della immodificabilità dei fatti accertati in modo definitivo nel processo penale, sotto il profilo della materialità del loro manifestarsi nel mondo esterno.

È bensì vero che, pur se le due giurisdizioni sono autonome, sussiste nondimeno, tra di esse, un innegabile collegamento sul piano cronologico, logico ed ontologico che può comportare la possibilità di una sospensione del processo contabile in attesa della definizione di quello penale; tale sospensione, peraltro, è rimessa alla valutazione e al prudente apprezzamento del giudice di prime cure, che non l'ha, nel caso di specie, ritenuta necessaria, giudicando maturo per una decisione di merito il processo introdotto dal procuratore contabile con il supporto di elementi di prova sulla sussistenza della vicenda illecita dedotta in giudizio, pur se derivanti, in gran parte, dall'istruttoria svolta nell'ambito del procedimento penale, ancora non pervenuto a conclusione.

La valutazione sul punto operata dal primo giudice viene condivisa da questo collegio d'appello, che ritiene di respingere, in particolare, la tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo la quale la presenza di una sentenza penale irrevocabile di condanna costituirebbe, oggi, ai sensi della legge n. 97 del 2001, una condizione essenziale per il promovimento del giudizio di responsabilità erariale.

Il Procuratore generale resistente ha rilevato nell'atto conclusionale scritto, e sul punto il collegio concorda, che deve al riguardo opporsi che l'articolo 7 della richiamata legge n. 97 del 2001 non pone alcuna condizione di procedibilità dell'azione di danno in presenza di un già avviato procedimento penale, ma si limita semplicemente a definire gli effetti di un giudicato penale di condanna nel giudizio contabile: il richiamo a tale disposizione risulta, pertanto, nel caso di specie inconferente.

La seconda questione proposta all'attenzione del collegio concerne la giuridica possibilità della proposizione di un'azione per danno (non patrimoniale) all'immagine, disgiunta dall'accertamento di un qualsivoglia danno patrimoniale contestualmente arrecato all'ente.

La problematica è stata affrontata più volte dalle Sezioni di primo e di secondo grado, nonché dalle Sezioni riunite della Corte dei conti in sede di risoluzione di questioni di massima: l'orientamento prevalso, di cui costituisce sbocco conclusivo la sentenza delle SS.RR. n. 16/QM del 29 maggio 1999, è nel senso del riconoscimento dell'autonomia ontologica del danno non patrimoniale, azionabile indipendentemente dall'esistenza di un danno patrimoniale, in considerazione del pregiudizio arrecato dall'evento lesivo in quanto tale, da cui discende, ex se, l'autonoma risarcibilità di tale categoria di danno. A tale conclusione si è in verità pervenuti per gradi, anche per effetto di innovativi indirizzi interpretativi della Suprema Corte di Cassazione, che ha dapprima decisamente escluso che il danno risarcibile rientrante nella giurisdizione della Corte dei conti sia ravvisabile soltanto in una diminuzione patrimoniale già verificatasi, in quanto esso non può non comprendere anche i maggiori costi che la pubblica amministrazione sia eventualmente chiamata a sopportare (sentenza n. 3970 del 2 aprile 1993) ed ha poi ancora riconosciuto, con sentenza n. 5668 del 25 giugno 1997, che sussiste la giurisdizione della Corte dei conti non già sul "danno morale" in senso stretto (inteso, cioè, come pretium doloris conseguente alla commissione di un reato) bensì sul "danno conseguente alla grave perdita di prestigio ed al grave detrimento dell'immagine e della personalità pubblica dello Stato … che, anche se non comporta una diminuzione patrimoniale diretta, è tuttavia suscettibile di una valutazione patrimoniale sotto il profilo della spesa necessaria al ripristino del bene giuridico leso".

Le Sezioni riunite della Corte dei conti, con più recente sentenza n. 10/2003/QM del 12 marzo/23 aprile 2003, richiamata dal primo giudice ed alla quale anche questo collegio d'appello intende fare pieno ed integrale riferimento, hanno particolarmente insistito sul fatto che il danno all'immagine di cui si chiede al giudice contabile il riconoscimento a fini risarcitori viene in considerazione nella sua entità di danno-evento e non di danno-conseguenza, di talché le eventuali diminuzioni patrimoniali derivanti dal comportamento del convenuto non partecipano alla sua formazione, potendo o dovendo piuttosto venire in considerazione quali elementi di un ulteriore e distinto danno patrimoniale, che, una volta accertato, è come tale autonomamente perseguibile nello stesso o in altro distinto processo.

Conclusivamente, il danno in questa sede reclamato dalla Procura procedente era e resta legittimamente perseguibile in modo autonomo, indipendentemente dalla sussistenza e dall'accertamento di altri (ulteriori) danni di natura patrimoniale, che, se nella fattispecie all'esame, a seguito di accertamenti che l'organo requirente ha preannunciato di volere svolgere, risulteranno effettivamente intervenuti, potranno eventualmente costituire oggetto di altro e distinto atto di citazione, dando vita ad altro e distinto processo di responsabilità amministrativo contabile.

Va ancora esaminato, prima di passare all'esame del merito della vicenda, l'ulteriore profilo di inammissibilità riproposto dagli appellanti, rappresentato dalla contestata omessa notifica dell'ordinanza di conferma del sequestro conservativo ante causam autorizzato dal Presidente della Sezione, che comporterebbe, ad avviso dei ricorrenti, l'inefficacia dell'atto di citazione. Sul punto, è sufficiente riportarsi alle argomentazioni svolte nel giudizio di primo grado, nel quale è stato già precisato che in presenza di atti e provvedimenti di carattere e natura differenti, l'uno, cautelare, volto alla conservazione della garanzia del credito, l'altro, di merito, all'accertamento della responsabilità, "l'asserita inefficacia del provvedimento cautelare non si riverbera nel merito e non determina l'inefficacia dell'atto di citazione". A tale argomento non sono stati dai ricorrenti contrapposti nuovi elementi controdeduttivi, sui quali questo collegio debba soffermare la propria attenzione.

Passando ora all'esame del merito della vicenda, giova ricordare che le censure mosse dagli odierni appellanti si basano fondamentalmente sui seguenti tre punti: il danno perseguito (da identificare nel danno morale di cui agli articoli 2059 c.c. e 185 c.p.) non si è prodotto; del suo verificarsi non è stata offerta la prova; la quantificazione del danno non è stata correttamente operata, risultando eccessivo l'ammontare determinato dal giudice.

Nessuna di tali affermazioni viene condivisa dal collegio.

Preliminarmente, va chiarito (ad integrazione di quanto già precedentemente ricordato in proposito) che il danno morale ex art. 2059 c.c., risarcibile ai sensi dell'art. 185 c.p. quale conseguenza ulteriore di un reato perseguito e penalmente sanzionato, è istituto del tutto distinto da quello, che qui viene in esame, del danno all'immagine e alla reputazione dell'Amministrazione pubblica, che costituisce una forma di danno patrimoniale per lesione di un bene immateriale, come tale risarcibile a prescindere dai limiti posti dall'art. 2059 c.c., che attiene ad una tipologia di danno (quello morale in senso stretto) patibile, in quanto tale, dalla persona fisica ma non certo dalla persona giuridica pubblica.

La risarcibilità di tale danno, trattandosi (come si è detto) di danno-evento e non di danno-conseguenza, è poi ancorata al verificarsi del fatto intrinsecamente dannoso, prescindendo anche dalla concreta "deminutio" derivante dalla spesa occorrente per il ripristino del bene leso.

Sul punto la recente giurisprudenza (cfr. Sezione Basilicata, sent. n. 297 del 3 dicembre 2004) e l'orientamento risalente di questa stessa Sezione Terza ha già chiarito che il ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 1226 c.c. può ben consentire l'individuazione di una misura "per equivalente", idonea ad atteggiarsi come congrua riparazione della violazione perpetrata in danno di un interesse della pubblica amministrazione, giuridicamente tutelato in considerazione della sua rilevanza nel contesto sociale e civile in cui è inserito. Questa Sezione, in particolare, con sentenza n. 279/2001 del 26 ottobre 2001, ha al riguardo poi rilevato che l'intervento ripristinatorio, concretamente percepibile attraverso la spesa necessaria per realizzarlo, "deve intendersi come parametro di riferimento per la quantificazione, da realizzarsi in via equitativa, ai sensi dell'art. 1226 c.c., di un danno che, pur non essendo patrimoniale, deve tuttavia essere suscettibile di una valutazione economica" e che "tale scopo ben può essere conseguito attraverso una costante opera di potenziamento dei servizi resi alla collettività, di miglioramento dell'efficienza e dell'organizzazione graduale e costante nel tempo, da conseguire anche con la somma con la quale il giudice della responsabilità decide di sanzionare la condotta lesiva", rientrando tra l'altro l'intervento riparatore di cui sopra "nell'ordinario operare di ciascuna amministrazione".

In definitiva e conclusivamente può ritenersi sufficiente la prova che l'Amministrazione ha realmente subito tale tipo di danno, al quale ovviamente essa non potrà non porre riparo, con conseguente e correlativo esborso di pubbliche risorse, senza necessità di prova di effettivi e specifici pagamenti già effettuati, per il ripristino del bene giuridico leso.

Per la dimostrazione dell'esistenza del danno, poi, sono pienamente utilizzabili tutti gli accertamenti già espletati in altre sedi istituzionali e quindi anche gli elementi di prova, pur non definitivamente verificati, derivanti da altri procedimenti, che il giudice della responsabilità potrà liberamente apprezzare e valutare, senza necessità di riprodurre, nell'ambito del processo di responsabilità, l'iter formativo della prova proprio del procedimento (nella specie, quello penale) da cui gli elementi in questione provengono.

Nello specifico, le ammissioni degli indagati desunte dai verbali d'interrogatorio dinanzi al pubblico ministero penale costituiscono prove documentali legittimamente assunte, essendo state poste a base di una attività istruttoria concretizzatasi nell'accertamento delle disfunzioni prodotte dal comportamento degli indagati, ampiamente descritte nell'atto di citazione e nella formulazione di un circostanziato invito a dedurre (atto finale dell'attività di accertamento propria del procuratore regionale procedente, finalizzato alla partecipazione al presunto responsabile degli elementi a suo carico emersi, con contestuale offerta di produzione di documentazione o di controdeduzioni a discarico) e sui quali, nella fase dibattimentale del giudizio svoltosi dinanzi alla Sezione piemontese, si è compiutamente svolto il contraddittorio delle parti, nella forma della critica liberamente svolta sugli elementi raccolti e prodotti dalla Procura attrice.

Non è superfluo a tale proposito rammentare che nel giudizio di responsabilità amministrativa vigono, in materia di prove, il principio della acquisizione e quello della cartolarità, in forza dei quali, da un lato, le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa della quale sono formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del libero convincimento del giudice, dall'altro assumono rilevanza fondamentale le prove documentali già acquisite, svolgendosi la discussione dibattimentale non già sulla formazione di tali prove dinanzi al giudice (come avviene nel processo penale), bensì, prevalentemente sulla valutazione critica di prove precostituite, formatesi fuori del giudizio.

Il contraddittorio processuale dinanzi al giudice contabile, in altri termini, non si concretizza nella partecipazione al procedimento di formazione delle prove, presentandosi più semplicemente con i contenuti dell'esercizio reciproco del diritto di critica sulle prove già acquisite: la parità delle posizioni viene assicurato dalla pari dignità riconosciuta alle parti di contribuire, attraverso il confronto dialettico sul valore e sul significato dei documenti acquisiti ai fini del processo, con le argomentazioni rispettivamente portate nella discussione, alla formazione del convincimento del giudice contabile, secondo il principio del libero apprezzamento.

La prova del danno all'immagine ed al prestigio dell'azienda ospedaliera è stata, nel caso di specie, fornita e liberamente apprezzata dal primo giudice, non potendo neppure condividersi la tesi difensiva secondo la quale solo fatti di "mala sanità" posti in essere da sanitari e non anche comportamenti ascrivibili ad attività contabili di funzionari amministrativi sarebbero suscettibili di compromettere la funzionalità dell'azienda e la bontà del servizio assistenziale prestato, screditandone l'immagine.

Nel sostenere tale tesi, i difensori evidenziano che, pur dopo i fatti contestati, l'Ospedale "Le Molinette" è restato il maggiore e meglio attrezzato complesso sanitario dell'area piemontese.

La tesi risulta tuttavia inconsistente, se diretta a ridimensionare la portata del peculiare profilo di danno addebitato agli attuali appellanti, se solo si considera che proprio la trasformazione delle preesistenti unità sanitarie locali, mediante il loro accorpamento, in aziende dotate di personalità giuridica pubblica, di autonomia organizzativa, amministrativa, gestionale e tecnica, con il conseguente maggior peso dell'autonomia decisionale attribuita ai dirigenti ed in particolare al direttore generale, ha rappresentato il punto di forza che ha qualificato la riforma sanitaria introdotta con il decreto legislativo n. 502 del 1992 e con i provvedimenti attuativi successivamente adottati. Riforma, come è noto, ispirata alla dichiarata finalità di assicurare la piena libertà di scelta del cittadino attraverso una maggiore equità nella distribuzione dei servizi sanitari, l'eliminazione di ogni disparità favorita dalle diverse situazioni reddituali e territoriali, la netta separazione del ruolo della politica da quello della dirigenza amministrativa e, in definitiva, attraverso lo sviluppo di adeguati livelli di efficienza, efficacia ed economicità nella gestione delle risorse e nell'erogazione dei servizi, anche mediante la formazione di una prassi concorrenziale all'interno del Servizio sanitario pubblico e tra lo stesso servizio pubblico e quello privato.

Per ciò che concerne la quantificazione del danno, che tutti gli appellanti ritengono viziata (per eccesso le parti private, per difetto la Procura generale) il collegio ritiene condivisibili le censure mosse dalla parte pubblica, nel presupposto che tale quantificazione, da effettuarsi mediante ricorso al già menzionato criterio equitativo di cui all'articolo 1226 c.c., trova il suo fondamento su plurime circostanze, di varia tipologia, che sono state compiutamente analizzate dalla giurisprudenza di questa Corte e particolarmente dalla più volte citata sentenza delle Sezioni riunite in sede di risoluzione di questione di massima n. 10/QM del 23 aprile 2004: tra tali circostanze rientrano, senza tuttavia esaurirne l'ambito, sia l'eco giornalistica suscitata dallo svolgimento dei fatti causativi di pregiudizio per l'Amministrazione che l'ammontare delle somme illecitamente percepite per favorire interessi di privati.

Correttamente la Procura rileva che per l'O. il quantum della condanna è stato determinato in una somma pari all'importo delle tangenti percepite, secondo il conteggio contenuto nella memoria difensiva e, per il R., nella metà delle illecite percezioni: criterio, questo, effettivamente contrastante con quanto rilevato dalle Sezioni riunite con sentenza n. 10/QM/2003, nella quale si afferma che "l'importo della tangente, isolatamente considerato,non può fondare una valida automatica parametrazione per la quantificazione del danno, ma può concorrervi, unitamente ad altri elementi propri della fattispecie, quali ad esempio il ruolo del percettore all'interno dell'apparato pubblico".

La validità di tale indicazione comporta che debba condividersi il motivo di gravame proposto con l'appello incidentale del Procuratore generale della Corte dei conti, perché, contrariamente a quanto affermato in via di principio con la sentenza impugnata (e cioè che per la determinazione del quantum si deve tenere conto del criterio oggettivo, con riguardo alle somme ricevute, a quello soggettivo, in relazione al tipo di servizio prestato, nonché al criterio sociale, basato sulla ripercussione suscitata nell'opinione pubblica) con la stessa non viene in realtà attribuito un rilievo adeguato al criterio soggettivo (l'O. era il direttore generale e il R. il capo dell'ufficio tecnico del più grande ospedale piemontese ed uno dei più importanti d'Italia) e neppure a quello sociale (la vicenda ha avuto notevole clamore anche a livello nazionale, tanto da essere oggetto di una intera puntata di una trasmissione televisiva della RAI).

L'accoglimento del motivo di gravame, in parte validamente contrastato dalle difese con argomentazioni di cui si è dato conto nella esposizione del fatto, comporta, con la conferma della condanna degli appellanti, la rideterminazione dell'importo della stessa, non nella misura (peraltro indicativa) di euro 500.000,00 indicato dalla Procura regionale procedente, bensì nell'ammontare complessivo di euro 200.000,00 (duecentomila), da imputare per euro 150.000,00 ad O. e per euro 50.000,00 a R., fermo restando il vincolo della solidarietà passiva per coloro che hanno agito con dolo, ex art. 1-quinquies legge 14 gennaio 1994, n. 20, come modificato dall'articolo 3 della legge 20 dicembre 1996, n. 639.

A tale ultimo proposito il collegio non ritiene fondata l'eccezione di incostituzionalità della disposizione suddetta, motivata con riferimento all'assenza di concorso, in quanto "i comportamenti imputati ai due convenuti sono comunque comportamenti distinti, anche se certamente in qualche misura connessi", con riguardo alla non riconducibilità diretta dell'arricchimento conseguito al danno subito dalla pubblica amministrazione, nonché, in ultima analisi, all'adesione a quell'orientamento giurisprudenziale che esclude la trasmissibilità agli eredi del danno all'immagine conseguente alla percezione di tangenti.

Nessuna delle indicate argomentazioni convince della non manifesta infondatezza della questione prospettata, sussistendo nella fattispecie tanto l'illecito arricchimento quanto l'elemento soggettivo del dolo (espressamente richiamato anche dal primo giudice) e non risultando calzante la proposta assimilazione della presente alla diversa ipotesi della eventuale trasmissione del debito, in caso di morte del convenuto, ai suoi eredi legittimi.

Conclusivamente, debbono essere respinti, in quanto infondati, il ricorso principale proposto dall'ing. Aldo R. e il ricorso incidentale proposto dal dott. Luigi O. e deve essere parzialmente accolto, nei termini sopra specificati, il ricorso incidentale proposto dalla Procura generale della Corte dei conti.

La conferma della statuizione di condanna comporta, ovviamente, la condanna alle spese relative anche a questo grado d'appello.

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione terza giurisdizionale centrale d'appello, definitivamente pronunciando, previa loro riunione in rito, respinge gli appelli n. 21187 e n. 21764, proposti, rispettivamente, dai Signori R. ing. Aldo e O. dott. Luigi ed accoglie parzialmente, nei termini di cui in parte motiva, l'appello incidentale n. 21745 proposto dalla Procura Generale della Corte dei conti.

La Corte, in parziale riforma della sentenza appellata, ridetermina gli importi delle condanne inflitte in primo grado in euro 200.000,00 (duecentomila) addebitandoli in solido agli appellanti, con la ripartizione interna indicata in parte motiva (euro 150.000,00 per O. ed euro 50.000,00 per R.): il tutto maggiorato di rivalutazione monetaria dalla data di emersione del danno, coincidente con il giorno in cui si è proceduto all'arresto dei due condannati (rispettivamente, 17 e 27 dicembre 2001), più interessi legali dalla data del deposito in segreteria della presente sentenza d'appello, fino al soddisfo.

La Corte pone a carico dei soccombenti le ulteriori spese di giudizio relative a questa fase processuale di riesame, che liquida in euro 463,00 (quattrocentosessantre/00) da ripartire in eguale misura tra di essi.

Manda alla Segreteria per le notifiche e per gli altri adempimenti di competenza.